Donne ceo, quante sono in Italia?

Il Corriere della Sera, in un articolo di Diana Cavalcoli, approfondisce la situazione italiana del lavoro femminile, in particolare delle donne a capo di un’azienda.
Mai così tante italiane nei board delle società ma sono ancora poche quelle che raggiungono ruoli apicali. Lo ha ricordato anche la premier Meloni ribadendo la volontà di avere una ceo a guida di una partecipata statale. Secondo il rapporto Women in Business, ad ogni modo, le poltrone di ceo occupate dalle donne italiane nel 2022 sono cresciute: siamo passati al 20% dal 18% del 2021. Con segnali positivi anche dall’Italia. A fine 2021, secondo il rapporto Consob sulla Corporate Governance, il 41% degli incarichi di amministrazione nelle società quotate era esercitato da una donna. Un record per il nostro mercato legato in buona parte alle norme che riservano una quota dell’organo sociale al genere meno rappresentato. Si pensi alla Legge Golfo-Mosca del 2011 e alla legge 160/2019. Posti i buoni risultati va comunque precisato che tra le donne delle stanze dei bottoni solo un 2% è ceo e solo il 4% presidente. Nella maggior parte dei casi le donne sono consiglieri indipendente (75%) o di minoranza (11%) e allargando lo sguardo al mondo delle imprese, il gap è evidente: solo 1 su 10 è a guida femminile (dati Cerved) .

Posti i numeri in crescita ma perfettibili, un esercizio sempre utile è vedere chi ha già tagliato il traguardo. Chi sono, quindi, le super manager del Bel Paese?

Scorrendo l’elenco delle più grandi società italiane quotate (e non) emergono profili diversi. Tra le italiane al vertice c’è ad esempio «Lady Microsoft». Silvia Candiani ceo di Microsoft per l’Italia dal 2017 è stata pioniera nel campo tech. Nata a Milano nel 1972 da anni incoraggia le giovani a formarsi in ambito Stem allenando il coraggio e accettando i rischi. Raccontava a novembre al Corriere della Sera: «Credo che l’essere donna mi abbia dato una marcia in più in termini di capacità, di empatia, relazionale, di ascolto. Qualità che poi fanno la differenza anche nel mondo del lavoro». Al vertice troviamo poi Margherita Della Valle, nominata amministratrice delegata ad interim del gruppo Vodafone. Laureata al Des della Bocconi nel 1988, romana, classe 1965, vive da 15 anni a Londra e nel gruppo è stata anche Cfo, responsabile della gestione delle attività finanziarie. Al Corriere ricordava in una recente intervista: «Se si guarda alle grandi aziende europee, quelle che sono nei principali indici azionari, solo 1 Cfo su 10 è donna. C’è ancora molto da fare». Per l’industria spicca la chimica Catia Bastioli, amministratrice delegata di Novamont, colosso nel settore delle bioplastiche, ed ex-presidente di Terna che ha messo al centro della sua attività l’attennzione per la sostenibilità e l’economia circolare. Tra le ceo anche la romana Alessandra Ricci, ad e dg di Sace da maggio 2022. Classe 1969 Ricci è Laureata in Economia e commercio presso l’Università Luiss e fino al 2020 era ceo di Simest. Tra le donne al vertice anche Vera Fiorani, amministratrice delegata e dg di Rfi. Laureata in Economia e Commercio all’Università La Sapienza di Roma, entra in Rfi nel 2001 dopo esperienze lavorative in Ferrovie dello Stato, Tav e Izi.

Tra le dirigenti anche Lucia Morselli attuale amministratrice delegata di Acciaierie d’Italia, già ArcelorMittal Italia. C’è poi Elena Patrizia Goitini, dal 2021 ad di Bnl e responsabile Bnp Paribas per l’Italia. Milanese, bocconiana, è la prima donna alla guida di una grande banca in Italia. In una recente intervista sulla parità di genere parlava della necessità per le donne di puntare sulla «nostra autenticità e non su stereotipi manageriali».

 

Quali trasformazioni strutturali stanno avvenendo nel mercato pubblicitario globale?

Nell’articolo pubblicato da Youmark! il 22 febbraio 2023 si analizza come l’industria dei media sia entrata in una fase di cambiamento.

L’essenza stessa di un media owner, ciò che lo costituisce, viene messa in discussione in misura crescente dalle trasformazioni strutturali del mercato pubblicitario globale, che quest’anno vale 993 miliardi di dollari. È sempre più difficile, in particolare, per gli editori che creano contenuti rimanere competitivi nei confronti di canali a performance ricchi di dati come i retail media, e sostenere le attività editoriali con i soli ricavi da display online, secondo l’ultimo rapporto Global Ad Trends di WARC: ‘Media models in flux’.
Amazon, ad esempio, ha ricavato 37,7 miliardi di dollari dai servizi pubblicitari nel 2022, quasi l’esatto valore della stampa a livello globale lo scorso anno. Secondo i dati di WARC Media, nel 2023 l’intero mercato pubblicitario globale dell’editoria varrà 47,2 miliardi di dollari, con un calo del 7,7% rispetto all’anno precedente. Tuttavia, nonostante tutto, la pubblicità rimane una fonte di ricavi attraente e ad alto margine, il che significa che i media owner stanno evolvendo i loro modelli operativi per tentare di sopravvivere. L’autore del report, Alex Brownsell, Head of Content di WARC Media, ha affermato infatti: “Per le testate giornalistiche e le riviste, i modesti aumenti delle entrate pubblicitarie digitali non sono stati sufficienti a compensare le perdite di entrate pubblicitarie globali. Il fatturato pubblicitario globale della stampa editoriale si è dimezzato negli ultimi sei anni, passando da 75,9 miliardi di dollari nel 2016 a 37,3 miliardi di dollari nel 2022“. “Mentre Meta sta lanciando un servizio di verifica a pagamento che riduce la sua dipendenza dalle entrate pubblicitarie, i media owner non hanno rinunciato al mercato pubblicitario“, ha aggiunto. “Netflix e Spotify sono solo due delle piattaforme che vedono nella pubblicità ad alto margine un mezzo per raggiungere la redditività e per reagire al calo degli abbonamenti, dato che i consumatori stanno affrontando la pressione dell’aumento costo della vita”.

In un mercato pubblicitario digitale programmatico e basato sui dati, per gli editori che creano contenuti è sempre più difficile rimanere competitivi. La spesa globale per video, audio, editoria e OOH è rimasta pressoché invariata. WARC Media prevede che nel 2023 gli investimenti totali saranno superiori dell’1,6% rispetto al 2016. Ma più di 4 dollari su 10 spesi in pubblicità in qualsiasi formato a livello globale vanno ora ad AlphabetAmazon o Meta.
Eppure alcuni editori stanno prosperando nel mercato attuale. Il New York Times, spesso citato come modello per un’attività di contenuti sostenibile e scalabile, dà la priorità alle vendite di ‘bundle’ tra i prodotti, e la pubblicità – secondo il concetto del quotidiano newyorkese – deve rientrare in una visione più ampia dell’esperienza dell’utente. Pubblicazioni di nicchia come Axios, con sede a Washington DC, Punchbowl e Politico, puntano invece i loro asset su un pubblico ristretto numericamente ma influente, economicamente e politicamente, della capitale statunitense. Sebbene non sia più sufficiente a sostenere molti media owner da sola, la pubblicità costituisce ancora una fonte di ricavi consistente e ad alto margine. Come si è accennato in precedenza, Netflix si è recentemente convertito alla pubblicità, segnando un momento di svolta nello streaming video e audio. Anche Disney+ e Warner Bros Discovery hanno adottato modelli ‘ibridi’ a pagamento – tramite abbonamenti a costi ridotti – e advertising based. Pure la piattaforma di streaming audio Spotify sta migliorando i margini grazie a una pubblicità più sofisticata sui podcast. Come ha affermato Laura Chaibi, Director International Ad Marketing and Insights di Roku: “Dopo anni di proliferazione dei servizi SVOD, i principali operatori del settore dei media si stanno ora spostando verso modelli di business ad supported per soddisfare il desiderio dei consumatori di accedere ai contenuti gratuitamente o ameno risparmiare”. I dati di Roku hanno rilevato che il 47% degli spettatori di streaming prevede di cambiare i propri servizi nei prossimi 12 mesi. E secondo GWI, il 57% di coloro che tagliano gli abbonamenti SVOD preferisce i servizi di streaming sostenuti dalla pubblicità. Si prevede invece che i media retail globali saranno il canale in più rapida crescita nel 2023, raggiungendo i 122 miliardi di dollari: l’indebolimento dello storico legame tra contenuti, pubblico e pubblicità è alla base dello sconvolgimento attuale dell’industria dei media. Entro il 2025 i retail media avranno un valore superiore a quello della TV lineare.

Questa rapida ascesa, unita alla progressiva sparizione dei cookie di terze parti e a una maggiore regolamentazione della privacy, ha portato i media tradizionali a cercare di soddisfare le esigenze di brand building e a tentare di svolgere un ruolo efficace per gli inserzionisti più in alto nel purchasing funnel: laddove i canali tradizionali offrono formati digitali e offline (video, audio, editoria e OOH), è sempre più probabile che i nuovi investimenti pubblicitari siano destinati ai formati digitali in CTV, streaming audio e DOOH.

Nasce l’Area Comunicatori di Manageritalia Executive Professional, la nuova casa per i professionisti della comunicazione

Milano, 23 febbraio 2023. Un’area di rappresentanza, informazione e formazione professionale per valorizzare l’intera categoria. Con queste prerogative e finalità nasce l’Area Comunicatori all’interno di Manageritalia Executive Professional che estende così il proprio ambito di specializzazione e rappresentanza delle Alte Professionalità.

La nuova area sarà coordinata da Rita Palumbo, professionista che da anni si occupa del settore. L’obiettivo è quello di valorizzare il ruolo e la specificità di una figura professionale sempre più cruciale per le imprese, in un contesto segnato da profondi cambiamenti soprattutto sul fronte delle competenze, garantendo la giusta rappresentanza ad un comparto professionale che produce valore per il Sistema Italia.

“La comunicazione – afferma Rita Palumbo – è un asset strategico che incide sulla reputazione, sulla credibilità e sull’autorevolezza dell’impresa. È un’attività che esige competenze definite e certificate. Con Manageritalia Executive Professional Area Comunicatori sarà avviato un percorso di informazione, sensibilizzazione e rappresentanza per dare l’adeguato riconoscimento ad una categoria di alte professionalità, quella del Comunicatore professionale, che crea valore economico e culturale per l’intero Sistema Paese.”

Dare voce ad oltre 30mila comunicatori che operano in Italia, diffondere la cultura della Comunicazione presso istituzioni e business community, valorizzare ruolo e funzioni del Comunicatore professionale, offrire progettualità e opportunità di lavoro ai 10mila giovani che ogni anno si laureano nelle Facoltà di Scienze della Comunicazione, creando “lavoro di valore”. Sono alcune delle ragioni prioritarie che danno senso e specificità alla nascita dell’Area Comunicatori di Manageritalia Executive Professional.

Un percorso che parte dall’introduzione di una specifica norma UNI sul tema, di cui la stessa Rita Palumbo è stata fautrice, e che si avvale della collaborazione e del dialogo con le principali organizzazioni di rappresentanza del mondo della comunicazione.

“La creazione dell’Area Comunicatori e la nomina di Rita Palumbo come coordinatrice – dice Carlo Romanelli, presidente Manageritalia Executive Professional – continua il percorso avviato con i Comunicatori d’Impresa per offrire una rappresentanza sempre più ampia e profonda a questo importante segmento delle Alte Professioni in Italia. Anche per loro vogliamo essere la “casa”, per diffondere e affermare i loro valori e contenuti, le prospettive e i diritti. Come facciamo già per gli Executive Professional e faremo per altre alte professionalità”.

“Non resta che seguirci nella nostra attività – conclude Romanelli – informarsi per conoscere i tanti vantaggi di far parte di questa casa comune, condividere alcuni aspetti dello sviluppo professionale e fruire di servizi e opportunità di valore”.

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Manageritalia www.manageritalia.it (Federazione nazionale dirigenti, quadri e professional del commercio, trasporti, turismo, servizi, terziario avanzato) rappresenta dal 1945 a livello contrattuale i dirigenti del terziario privato e dal 2003 associa anche quadri ed executive professional. Offre ai manager rappresentanza istituzionale e contrattuale, valorizzazione e tutela verso la politica, le istituzioni e la società, servizi per la professione e la famiglia, network professionale e culturale. Promuove e valorizza il ruolo e il contributo del management allo sviluppo economico e sociale. Oggi Manageritalia associa oltre 38.000 manager. La Federazione è presente sul territorio nazionale con 13 Associazioni e una dedicata agli Executive Professional, che offrono un completo sistema di servizi: formazione, consulenze professionali, sistemi assicurativi e di previdenza integrativa, assistenza sanitaria ai manager e alla famiglia, iniziative per la cultura e il tempo libero. Manageritalia associa oggi oltre 38mila manager.

I dati sul lavoro femminile in Italia: ultimi in UE

Un “allarme” che emerge da un report di Confartigianato presentato alla Convention di Donne Impresa Confartigianato, che rappresenta le piccole imprese guidate da donne.

“L’Italia non sostiene il lavoro femminile”, avverte Confartigianato, indicando che “siamo all’ultimo posto nell’Ue per il tasso di occupazione, pari al 58,1%, delle donne tra 25 e 49 anni in coppia con figli a carico e il 71,2% dei Neet under 35 è rappresentato da 651mila giovani donne che non studiano, non lavorano e non cercano occupazione”.

Basta con gli interventi-spot”, sottolinea la presidente di Donne Impresa Confartigianato, Daniela Biolatto. Con la crisi Covid prima e la crisi dell’energia ora, “tra il 2019 e il 2022 il lavoro indipendente femminile è diminuito del 5,8%”

Il report presentato da Confartigianato mette in luce le difficoltà vissute dalle imprenditrici in questi anni di crisi: tra il 2019 e il 2022 il lavoro indipendente femminile è diminuito del 5,8%.

A seguito della pandemia la componente femminile dell’economia ha subito una flessione del 3,6% del valore aggiunto, superiore al -2% della media, con cali più marcati per i settori della ristorazione (-28,7%), della moda (-19,9%), dei servizi alla persona (-16,3%).

La crisi energetica ha colpito in particolare le 29.066 imprese guidate da donne nei settori energivori (alimentare, carta, chimica, gomma e plastica, metalli, tessile e vetro, ceramica, cemento).

E ora gli aumenti dei tassi di interesse decisi dalle autorità monetarie potrebbero pesare, su base annua, con 270 milioni di maggiore costo del credito per le 111mila piccole imprenditrici che hanno chiesto prestiti alle banche”.

“Le imprenditrici e in generale le donne italiane – dice Daniela Biolatto – devono fare i conti con la carenza di politiche a favore dell’occupazione femminile e con un welfare che non aiuta a conciliare il lavoro con la cura della famiglia”.

Secondo Confartigianato, la spesa pubblica italiana è fortemente sbilanciata a favore degli anziani a scapito degli interventi per famiglie e i giovani: a fronte di 17,07 euro destinati a sanità e pensioni per gli anziani, soltanto 1 euro va alle famiglie e ai giovani. Una situazione che ci colloca in ventiquattresima posizione nella classifica europea.

Gli effetti si vedono, ad esempio sui servizi per l’infanzia, che in Italia sono meno diffusi rispetto alla media Ue: Confartigianato indica che sono 3.400 i Comuni italiani con una grave carenza di asili nido.

Inoltre, soltanto lo 0,56% della spesa pubblica e l’1% dei fondi strutturali europei, pari nel totale a 6 miliardi di euro, finanziano interventi per ridurre le disuguaglianze di genere.

Nonostante questi ostacoli – emerge ancora dal rapporto – le donne italiane sono le più intraprendenti d’Europa: il nostro Paese conta infatti 1.469.000 imprenditrici e lavoratrici autonome, il numero maggiore tra i Paesi Ue, con un grado di istruzione superiore ai colleghi maschi: il 41,1% è infatti laureato, una percentuale quasi doppia rispetto al 21,4% degli uomini.

“Serve una svolta nelle politiche per il lavoro femminile. Basta con gli interventi-spot: il futuro del nostro Paese – avverte ancora la presidente di Donne Impresa Confartigianato – dipende anche da quanto e come investiremo, con misure strutturali e stabili, per favorire la piena e duratura partecipazione delle donne al mercato del lavoro.

Anche grazie alle risorse del Pnrr abbiamo l’occasione imperdibile di creare le condizioni per sostenere e valorizzare finalmente il talento delle donne e la loro capacità di contribuire alla crescita economica e sociale”.

ChatGPT, quali sono le potenzialità?

Nell’articolo dell’HuffPost del primo febbraio 2023, Michele Mezza, parla del sistema di intelligenza artificiale ChatGPT, che grazie alle sue capacità potrebbe rivoluzionare, anzi rivoluzionerà, il mondo web e i lavori creativi con conseguenze sostanziali su organizzazioni che ne potrebbero sfruttarne le potenzialità.

 Perché abbiamo un’opportunità di addestrare socialmente i sistemi di AI?

Microsoft e Google stanno giocando a dadi con Dio, avrebbe detto Albert Einstein dinanzi alla competizione che si è ormai scatenata fra le due super potenze digitali sul terreno dell’intelligenza artificiale.

I due colossi sono alle prese con l’ingegnerizzazione dei rispettivi dispositivi, destinati a supportare ogni attività di ogni essere umano, fino a una possibile sostituzione. La posta in palio è qualcosa che va al di là del fatturato delle singole da incrementare, che rimane certo l’obiettivo di questi affaristi.

Ma le prestazioni di questi nuovi sistemi di cosidetta intelligenza artificiale generica e portabile, quali sono i nuovi dispositivi tipo Chat GPT di Microsoft e Sparrow di Google, ormai travalicano la meccanica del calcolo arrivando molto vicino alla telepatia. Come scriveva un grande fumettista satirico come Gary Trudeau per irridere il sofismo di molti suoi colleghi giornalisti, ”non sono un ornitologo ma quando vedo un papero lo riconosco”.

Il papero che si sta aggirando per redazioni e centri di ricerca oggi è una forma di intelligenza artificiale diventata maggiorenne che da moderatamente appare fortemente affidabile. In più questo papero è accessibile a ogni singolo individuo, stressando la rivoluzione della miniaturizzazione che abbiamo visto compiersi in questi ultimi 50 anni, con la transizione dal calcolatore al personal computer e da questo allo smartphone, con il risultato che ormai ogni due giorni si riproduce la stessa quantità di contenuti e informazioni prodotta dall’umanità, dal suo inizio fino al 2005.

Questo papero, su cui mi pare davvero capzioso continuare a discutere sulle ali striminzite o il piumaggio ancora scarmigliato, è in crescita esponenziale: in poche settimane ChatGPT ha raccolto il numero di utenti -6 milioni- che facebook ha raggiunto in due anni, e ora si annuncia un ulteriore salto che nei prossimi mesi dovrebbe portarlo a essere usato da almeno 400 milioni di utenti, con un’esplosione della sua attitudine a imparare dall’esercizio moltiplicato per molte migliaia di unità, quali è la differenza fra 6 e 400 milioni. Siamo in presenza dunque del graduale ma inesorabile perfezionamento di un sistema che lavora con un linguaggio naturale, ed è fornito di dotazioni relazionali e riflessive che riproducono aspetti distintivi della nostra specie, mostrando una chiara possibilità di integrarsi nella nostra attività cognitiva meno meccanica e banale, creando il primo prototipo di “cervello aumentato”. Stiamo ancora una volta cambiando la struttura neurologica della specie.

Non è una novità. È accaduto più volte nel corso della nostra evoluzione millenaria. Pensiamo al passaggio dall’era glaciale a quella temperata, dai cacciatori raccoglitori al nomadismo di massa, fino all’agricoltura, e poi ancora con le concentrazioni nelle prime metropoli, dove la scrittura e la matematica crearono modelli cognitivi che selezionarono modi di vivere e di strutturare le nostre relazioni formattando il modo di parlare, pensare e produrre.

Un grande filosofo dell’800, abituato a osservare proprio l’impatto delle tecnologie nelle relazioni sociali ci spiegava che il mulino ad acqua dà la società feudale, e dunque l’omo legato alla terra e comandato dalla proprietà fondiaria, mentre il mulino a vapore ci dà la società industriale, con esseri umani svincolati dalla terra e per quanto subordinati alla fabbrica con ambizioni e capacità di organizzarsi autonomamente.

Ora dobbiamo capire quale società ci darà il mulino AI, dove l’uomo si vede organizzato dai proprietari del calcolo, i calcolanti, e ridotto a calcolato, benché con cognizioni e assetti che gli permettono di interferire con i sistemi che lo governano.

Questo ultimo passaggio sta avvenendo in maniera convulsa, non più diluito nei secoli di cui parlavano i filosi del passato, ma concentrato in pochi decenni, sotto i nostri occhi. I testimoni ne sono anche i protagonisti.

Ma l’altra differenza rispetto alle grandi trasformazioni antropologiche che abbiamo alle spalle sta che questa, per quanto possente e pervasiva, che attraverso il destino dell’intera umanità, sia confiscata da pochi centri di elaborazione e controllo dei sistemi di calcolo. Il nuovo genio della lampada è prigioniero degli uffici marketing della Silicon valley.

Ora più che filosofare se la canzone composta dal dispositivo digitale sia bella o brutta, o se la sua composizione poetica ci trasmetta simulazioni di emozioni o sentimenti reali, mi sembra più urgente ragionare sul modo in cui socializzare questa straordinaria opportunità, sottraendola alla più miope e meschina logica commerciale che al momento guida i suoi proprietari.

Sarebbe intanto da chiedersi se la scrittura o la stampa abbiano avuto proprietari, per quanto i pionieri siano stati debitamente compensati dalle rispettive intuizioni. Ma davvero un fenomeno che al momento è condivisibile da almeno 5 miliardi di persone può essere ristretto nei limiti speculativi dettati da chi lo possiede? La domanda non ha solo un valore etico ma risponde anche alle esigenze proprio dei processi di sviluppo di queste intelligenze.

I due sistemi che oggi sembrano emergere come driver della trasformazione del decentramento a ogni individuo di risorse di intelligenza artificiale -ChatGPT per Microsoft e Sparrow per Google- al momento sono in bacino di carenaggio.

L’azienda di Bill Gates ha giocato d’anticipo offrendo la versione beta del proprio prodotto a un collaudo di massa. In poche settimane almeno 6 milioni di utenti hanno cominciato a giocare con la potenza intelligente di Chat GPT, rendendone subito evidente l’insufficienza infrastrutturale. Come sappiamo infatti, il dispositivo si muove in un ambiente chiuso di contenuti, arredato da 200 miliardi di concetti ed espressioni logiche su cui è stato costosamente addestrato, arrivando a trasmettergli il sapere prodotto e pubblicato fino al 2021.

Sparrow, passerotto in inglese, invece cinguetta nella gabbietta di Google, ancora al riparo da un collaudo pubblico, con i suoi progettisti che si stanno arrovellando sul modo migliore per sfruttarne le sue caratteristiche. A differenza del concorrente di Microsoft, la creatura di Larry Page e Sergey Brin, avrebbe la capacità di lavorare direttamente in rete, avvalendosi dell’intero infinito magazzino di nozioni prodotte digitalmente dall’umanità in questi decenni, ma soprattutto garantendo un aggiornamento massimo delle informazioni.

In entrambi i casi si accusano costi di esercizio ancora rilevanti. Microsoft ha verificato che ogni singola attività di ChatGPT, ogni sua risposta a un prompt, una domanda, gli costa circa 150 volte di un responso di Google. Ovviamente parliamo di due cose diverse: il nuovo sistema AI, elabora una vera composizione letteraria che processa le fonti senza indicarle, mentre il motore di ricerca di Mountain View, come sappiamo, ci risponde semplicemente indicizzando le fonti relative all’argomento che gli abbiamo proposto.

Inoltre rimangono ancora insoluti problemi legati all’hardware, ossia quel reticolo di server e cloud che dovrà smaltire quella gigantesca massa di contatti che si sprigioneranno una volta che i sistemi entreranno in funzione a regime.

Ma in entrambi i casi il vero buco nero riguarda proprio l’addestramento.

Parliamo di quella fase in cui le sinapsi digitali riprodotte dagli algoritmi devono acquisire le più diverse forme semantiche del nostro linguaggio, cogliendo ogni sfumatura e sottigliezza dei modi in cui ci rivolgeremo al sistema. Esattamente come un bambino impara a parlare in maniera sempre più matura. Con la differenza che nessuno avrà la pazienza e la voglia di seguire l’evoluzione naturale di questo apprendimento che in natura impiega circa 10/15 anni.

Questa è la fase in cui, mentre si impara a comprendere e a rispondere ai prompt più diversi e specialistici, vengono impressi gli imprinting etici e valoriali ai sistemi automatici, come ci ha spiegato qualche tempo fa Timnit Gebru, l’ex responsabile della divisione etica di Google licenziata proprio per aver avanzato dubbi sul modo con cui venivano allenati i meccanismi del motore di ricerca.

Inizialmente, non a caso, ChatGPT era stata pensata da una fondazione, OpenAI senza scopo di lucro, per essere rilasciata in regime di opensource in rete e potersi così avvalere di questa straordinaria palestra di saperi e linguaggi che è internet. Poi ha prevalso l’istinto speculativo, Microsoft ha comprato OpenAI che è diventata la solita start up in cerca di profitto. Ma i costi dell’operazione si annunciano poderosi: i dieci miliardi stanziati a Seattle potrebbero non bastare, così come per Google.

L’idea di mantenere completamente all’interno di una modalità proprietaria il suo sistema si potrebbe rivelare proibitivo oltre che inefficiente.

Sarebbe allora possibile pensare a una strategia che dopo aver remunerato l’attività di svezzamento dei due sistemi, veda istituzioni pubbliche e organizzazione sociali, che pure solo all’origine dell’affermazione di Internet, come la gestione dei domini, intervenire assicurando la collaborazione di questi organismi per abbattere i costi dell’addestramento e soprattutto rendere efficiente e sicuro il sistema, alla luce proprio dei linguaggi e delle competenze più diverse.

Penso per esempio a livello europeo a come centri di ricerca e università potrebbero seguire i percorsi di sviluppo delle dotazioni specializzate di questi sistemi nel campo della medicina, o dell’informazione o del diritto, lasciando certo ai proprietari l’opportunità di realizzare applicazioni commerciali, come il modello open source, prevede, ma assicurando una soluzione di base che possa essere poi riprogrammata e orientata da gruppi professionali o organizzazioni sociali.

Siamo proprio nel caso in cui, come scriveva Marianna Mazzucato nel suo ultimo testo “Il valore di tutto” (Laterza Editore), l’estrazione privata di valore diventa distruzione pubblica di ricchezza.

I rischi d’impresa più rilevanti nel 2023

L’indagine annuale condotta da Allianz sui principali rischi percepiti dalle aziende a livello globale, come riportato da Michelle Crisantemi su Innovation Post, evidenzia che i rischi informatici e l’interruzione delle attività, anche dovuta a problemi di approvvigionamento, rappresentano i principali timori delle aziende.

La classifica, punta a fornire un quadro globale sulla percezione dei rischi d’impresa, raccogliendo le opinioni di 2.712 esperti provenienti da 94 Paesi, tra cui amministratori delegati, risk manager, broker ed esperti assicurativi.

Il barometro 2023 mostra che, per il secondo anno consecutivo, la principale preoccupazione delle imprese è rappresentata dai rischi informatici, come le interruzioni dell’attività IT, gli attacchi ransomware o le violazioni dei dati.

Tuttavia, i cambiamenti macroeconomici come l’inflazione, la volatilità dei mercati finanziari e l’incombenza di una recessione, nonché l’impatto della crisi energetica salgono nella classifica dei rischi aziendali globali di quest’anno, così come si fanno sentire le conseguenze economiche e politiche del mondo in seguito al Covid-19 e alla guerra in Ucraina.

Rischi informatici, la frequenza e il costo medio resteranno elevati nel 2023

Nello specifico, i rischi informatici sono un fattore in cima alle preoccupazioni delle aziende in ben 19 Paesi – tra cui Italia, Canada, Francia, Giappone, India e Regno Unito – e sono le piccole e medie imprese (con fatturato al di sotto dei 250 milioni di dollari) a dichiararsi più preoccupate.

“Per molte aziende la minaccia nel cyber-spazio è più forte che mai e le richieste di risarcimento assicurativo rimangono ad un livello elevato”, spiega Shanil Williams, membro del Consiglio di Amministrazione di AGCS e Chief Underwriting Officer Corporate, responsabile della sottoscrizione cyber.

“Le grandi aziende sono ormai abituate a essere prese di mira e a respingere la maggior parte degli attacchi mentre assistiamo sempre più spesso alle conseguenze per le piccole e medie imprese, che spesso tendono a sottovalutare la loro esposizione. Tutte devono investire costantemente nel rafforzamento dei loro controlli informatici”, aggiunge.

Secondo il Cyber Center of Competence di Allianz, la frequenza degli attacchi ransomware rimarrà elevata anche nel 2023. Il costo medio di una violazione dei dati è ai massimi storici (4,35 milioni di dollari) e si prevede supererà i 5 milioni di dollari nel 2023.

Il conflitto in Ucraina e le più ampie tensioni geopolitiche stanno aumentando il rischio di un attacco informatico su larga scala da parte di soggetti supportati dagli Stati. A ciò si aggiunge una crescente carenza di professionisti di cyber security, che genera problemi quando si tratta di migliorare la sicurezza.

Interruzione delle attività principale preoccupazione per le aziende di Germania, Corea del Sud e Stati Uniti

Per le aziende di molti Paesi, il 2023 sarà probabilmente un altro anno problematico per l’interruzione di attività (BI, business interruption), perché molti modelli di business sono sensibili agli shock e ai cambiamenti improvvisi, che a loro volta incidono sui profitti e sui ricavi.

Se a livello globale laBusiness Interruptionè al 2° posto, in alcuni Paesi è invece il rischio numero uno: è il caso di Brasile, Germania, Messico, Paesi Bassi, Singapore, Corea del Sud, Svezia e Stati Uniti.

Le fonti che generano queste problematiche sono molteplici. Il rischio cyber è la causa di Business Interruption che le aziende temono di più (45% delle risposte, al secondo posto la crisi energetica (35%), seguita dalle catastrofi naturali (31%).

L’aumento vertiginoso del costo dell’energia ha costretto alcune industrie ad alto consumo energetico a utilizzarla in modo più efficiente, a trasferire la produzione in luoghi alternativi o addirittura a prendere in considerazione l’ipotesi di una chiusura temporanea.

Le conseguenti condizioni di penuria minacciano di provocare interruzioni delle forniture in una serie di settori critici in Europa, tra cui l’alimentare, quelli agricolo, chimico, farmaceutico, edilizio e manifatturiero, sebbene le miti condizioni invernali in Europa e la stabilizzazione del prezzo del gas stiano contribuendo ad alleviare la tensione energetica.

Un’eventuale recessione è un’altra probabile fonte di interruzione nel 2023, con il rischio di fallimento e insolvenza dei fornitori, che rappresenta un particolare campanello di allarme per le aziende con fornitori critici singoli o limitati. Secondo Allianz Trade, è probabile che le insolvenze globali aumentino notevolmente (del 19%) nel 2023.

Tensioni macroeconomiche, mai così tante aziende preoccupate da un decennio

Gli sviluppi macroeconomici, come l’inflazione o la volatilità dei mercati economici e finanziari, sono al terzo posto tra i rischi percepiti dalle aziende a livello globale nel 2023 (25%).

Si tratta di un dato significativo se paragonato alla precedente rivelazione, dove le tensioni macroenomiche ricoprivano solo la decima posizione in classifica e tenendo conto che è la prima volta che questo rischio compare nella top tre da un decennio a questa parte.

L’inflazione è particolarmente preoccupante perché sta intaccando la struttura dei prezzi e i margini di redditività di molte aziende. Come l’economia reale, anche i mercati finanziari dovranno affrontare un anno difficile, poiché le banche centrali prosciugano la liquidità in eccesso a livello di sistema e i volumi di trading diminuiscono anche nei mercati storicamente “liquidi”.

“Il 2023 sarà un anno difficile; dal punto di vista puramente economico, probabilmente sarà un anno da dimenticare per molte famiglie e aziende. Tuttavia, non c’è motivo di disperare”, afferma Ludovic Subran, Chief Economist presso Allianz.

“Innanzitutto, l’inversione di tendenza dei tassi di interesse è di grande aiuto, soprattutto per milioni di risparmiatori. Anche le prospettive a medio termine sono molto più rosee, nonostante – o piuttosto a causa – della crisi energetica. Le conseguenze, al di là della recessione prevista per il 2023, si stanno già facendo sentire: una trasformazione forzata dell’economia in direzione della decarbonizzazione e una maggiore consapevolezza dei rischi in tutti i settori della società, che rafforzerà la resilienza sociale ed economica”, aggiunge.

Rischi in crescita e in calo

La crisi energetica è il rischio con la maggiore spinta in aumento nell’Allianz Risk Barometer e compare per la prima volta al 4° posto (22%). Alcuni settori, come quello chimico, dei fertilizzanti, del vetro e dell’alluminio, possono dipendere da un’unica fonte di energia (il gas russo nel caso di molti Paesi europei) e sono quindi molto vulnerabili alle interruzioni della fornitura o agli aumenti dei prezzi.

Se queste industrie di base sono in difficoltà, le ripercussioni possono farsi sentire più a valle nella catena di valore di produzione di altri settori. Secondo Allianz Trade, la crisi energetica rimarrà il più grande trauma per la redditività, in particolare per i Paesi europei.

Ai livelli attuali, i prezzi dell’energia potrebbero azzerare i profitti della maggior parte delle società non finanziarie, poiché il potere contrattuale sta diminuendo a causa del rallentamento della domanda.

Dato che il 2023 sarà un altro anno di turbolenze, con conflitti e disordini civili in primo piano, i rischi politici sono una new entry al 10° posto (13%). Oltre alla guerra, le aziende sono preoccupate anche per l’aumento delle interruzioni dovute a scioperi, sommosse e disordini civili, in seguito alla crisi del costo della vita in molti Paesi.

Nonostante il calo nella classifica rispetto all’anno precedente, le catastrofi naturali (19%) e il cambiamento climatico (17%) rimangono tra le maggiori fonti di preoccupazione per le aziende.

In un anno che ha visto il passaggio dell’uragano Ian (una delle tempeste più potenti mai registrate negli Stati Uniti), ondate di calore, siccità e tempeste invernali da record in tutto il mondo e perdite assicurate per oltre 100 miliardi di dollari, questi rischi sono ancora tra i primi sette a livello globale.

I principali rischi d’impresa per le aziende italiane

L’analisi della situazione italiana sottolinea una situazione piuttosto simile rispetto ai trend globali: in cima alla classifica vi sono infatti i rischi informatici, principale preoccupazione per il 47% dei rispondenti (rispetto al 34% nella classifica mondiale), con un trend stabile rispetto alla precedente rivelazione.

Al secondo posto si posizionano le preoccupazioni legate all’interruzione delle catene di fornitura. Nel nostro Paese risulta maggiore la preoccupazione legata alla crisi energetica, che riguarda il 32% degli intervistati e che entra nella classifica del 2023 posizionandosi al terzo posto (nella classifica mondiale è al quarto).

Più sentiti sono i rischi legati ai cambiamenti climatici, che preoccupano il 21% degli intervistati. Si tratta del quinto fattore di rischio più significativo per le imprese italiane (a livello globale occupa invece la settima posizione), in salita rispetto al decimo posto del 2022.

I rischi politici (guerra, terrorismo, sommosse) occupano invece l’ottava posizione, insieme ai i cambiamenti nei mercati (aumento della competizione/arrivo di nuovi operatori, fusioni e acquisizioni, stagnazione e fluttuazione del mercato) e incendi ed esplosioni.

I rischi d’impresa più significativi per il settore manifatturiero

Oltre al focus sui singoli Paesi, l’Allianz Risk Barometer 2023 contiene anche l’approfondimento su come cambiano i rischi percepiti nei diversi settori economici. Per quanto riguarda il settore manifatturiero (incluso automotive), in cima alle preoccupazioni delle aziende vi è il rischio di interruzione delle Supply Chain, che preoccupa il 65% dei rispondenti.

rischi informatici si mantengono stabili al secondo posto, mentre al terzo posto troviamo il rischio di incendi ed esplosioni. Al quarto e quinto posto si posizionano due nuovi trend rispetto alla rilevazione del 2022: i cambiamenti nello scenario macro economico (programmi di “austerity”, aumento del prezzo dei beni di consumo primari, inflazione/deflazione) e la crisi energetica.

 

Primo tavolo della moda, obiettivi export e formazione.

Pambianco news del 24 gennaio riporta l’esito del primo Tavolo della Moda sotto il governo Meloni, tenutosi a Palazzo Piacentini. Presieduto dal ministro Adolfo Urso, presenti il viceministro Valentino Valentini, i sottosegretari Fausta Bergamotto e Massimo Bitonci, i rappresentanti del ministero dell’Ambiente e Sovranità Energetica il viceministro Vannia Gava e della Cultura il sottosegretario Lucia Borgonzoni le associazioni di categoria e i sindacati del settore.

L’appuntamento era stato annunciato in occasione della conferenza stampa d’apertura di Pitti Uomo 103, presso la Fortezza da Basso. Si tratta della prima convocazione nell’ambito del Governo Meloni, dopo l’istituzione nel 2009 proprio su impulso di Urso (che all’epoca aveva la delega per il Commercio con l’Estero) e una successione, nel corso degli anni, frammentaria e spesso poco nota al di fuori degli addetti ai lavori. L’ultima convocazione risale alla scorsa estate, da parte Vice ministro dello Sviluppo economico Gilberto Pichetto Fratin, e precedentemente (nel 2021) dal Ministro Gianfranco Giorgetti, sotto il Governo Draghi. All’ordine del giorno, il supporto a un settore fortemente vessato dalle ripercussioni dell’emergenza sanitaria.

Questa volta organizzato dal Ministro delle Imprese e del made in Italy (Mimit) Adolfo Urso, al Tavolo della moda si sono incontrate tutte le componenti della filiera, dalla produzione agli showroom, fino alla distribuzione commerciale per fare il punto sugli effetti del caro energia e dell’inflazione sui consumi di un settore strategico per la nostra economia e tra i più importanti per formazione del Pil e occupazione. 

Durante la riunione, sono state presentate azioni che il Governo sta mettendo in campo per sostenere il settore e contrastare le nuove sfide globali tra cui la concorrenza sleale e la lotta alla contraffazione. Più in particolare Urso ha preannunciato l’adozione di incentivi per sostenere l’export puntando a politiche industriali in risposta alle nuove sfide cinesi e americane (Buy European) e la riforma del settore della formazione professionale, eccellenza della filiera italiana, con riforma degli ITS e la creazione del liceo del Made in Italy.

“L’industria italiana della Moda – ha dichiarato il Ministro nel suo intervento – è l’emblema del made in Italy nel mondo e rappresenta un comparto produttivo di enorme importanza per l’economia del nostro Paese e trova la sua esaltazione nella nuova denominazione del Ministero che significa una nuova e più significativa mission. La riunione di oggi arriva in un momento cruciale in cui stiamo preparando le basi di una politica industriale europea. Mercoledì sarò a Bruxelles per una serie di incontri per sostenere le posizioni dell’Italia e delle sue imprese, come le modifiche al Regolamento Ecodesign”.

I rappresentanti del settore hanno sollecitato misure per investimenti in sostenibilità, aiuti per la digitalizzazione, sostegni finanziari per export. Tutte richieste che verranno presentate dal ministro Urso alla riunione istitutiva del nuovo Comitato Interministeriale del Made in Italy nel mondo (Cimim) che si terrà giovedì prossimo.

“La situazione per il settore moda sul mercato interno è particolarmente preoccupante a causa dell’inflazione all’11,6%, e degli inevitabili aumenti di almeno il 15%, che i fornitori praticheranno a partire dalle prossime collezioni, del costo del denaro e della difficoltà delle imprese ad ottenere credito”. A dirlo è Giulio Felloni, Presidente di Federazione Moda Italia e presente appunto al Tavolo della moda.

“Una situazione – ha proseguito Felloni, riassumendo la congiuntura economica che fa da sfondo all’appuntamento istituzionale – difficilmente sostenibile per i negozi di moda che dovranno anche pagare una mensilità in più all’anno per l’adeguamento Istat ai canoni di locazione e che potrebbero trovarsi di fronte ad una generale contrazione dei consumi”.

Al Ministro, che ha presieduto l’incontro, gli enti hanno raccontato le preoccupazioni di un settore ancora convalescente dalla crisi pandemica, avanzando un pacchetto di proposte per ridargli slancio, a fronte di uno scenario denso di criticità, tra una pressione inflazionistica galoppante, lo spettro della recessione e la crisi energetica e logistica.

Tra le proposte, un intervento urgente sulle locazioni commerciali come, ad esempio, un credito d’imposta del 30%, così come avvenuto durante la pandemia, o l’introduzione della cedolare secca sugli affitti commerciali condizionati all’obbligo di una congrua riduzione dei canoni di affitto dopo accordo specifico tra locatore e conduttore.

Per il rilancio dei consumi, la Federazione ritiene poi indispensabile un ‘bonus moda’, come quelli già sperimentati per automobili e arredamento, per la consegna nei negozi di moda di prodotti usati dai consumatori e un’aliquota Iva agevolata del 10% sui prodotti fashion.

Riunire sinergicamente la filiera, dunque, dando voce ai suoi attori e alle sue esigenze e urgenze, anche all’indomani della crisi pandemica. Resta, però, ancora da delineare l’impatto effettivo che il Tavolo avrà sulla scelte governative legate al settore moda. A dare fiducia ai player, il background del capofila Urso, con un trascorso imprenditoriale e un coinvolgimento già dimostrato in passato nelle sorti dell’ente.

Rilanciata la presenza italiana in Nord America grazie all’Agenzia Ice

La giornata, dedicata alle iniziative di rilievo nazionale, si è aperta con l’Innovation Talk di Ceipiemonte, in cui sono intervenuti il presidente Dario Peirone, l’assessore regionale all’internazionalizzazione Fabrizio Ricca, e il Ceo di Italdesign Antonio Casu. A seguire, prima di prendere il centro dell’arena per una lunga sessione di pitch moderata dal giornalista Luca Barbieri, le startup del padiglione, assieme a una platea di professionisti, hanno ascoltato un Innovation Talk dal tema «The New Italian Manufacturing». Il professor Carlo Bagnoli, docente dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e direttore dell’acceleratore VeniSIA, ha dialogato con tre rappresentanti dell’innovazione manifatturiera italiana: Barbara Sala, ceo della pmi innovativa Delcon, realtà di Bergamo attiva nel biomedicale che ha sviluppato con il New York Blood Center la bilancia per il sangue Milano, vincitrice del compasso d’oro; Enrico Zobele, presidente e ceo di Everel Group, azienda di componentistica che ha aperto un centro di Open Innovation; Mario Cammarota, manager R&D di Unox.

Introdotta dagli interventi della Console generale a Los Angeles Silvia Chiave e del Trade Commissioner Ita a New York e direttore esecutivo per gli Stati Uniti Antonino Laspina, e da uno speech del business futurist Alberto Mattiello, l’Italian Investor Night ha animato quindi l’Eureka Park con uno «Spritz&Pitch» che ha radunato innovatori e investitori internazionali in un’importante occasione di networking. Il Ces 2023 per l’Italia rappresenta un importante rilancio nel mercato statunitense, con il debutto nella più importante piazza dell’innovazione a livello mondiale di Innov.it, il primo Italian Innovation and Culture Hub nel mondo, inaugurato lo scorso ottobre al 710 di Sansome Street a San Francisco, Innov.it è uno spazio che aggrega le attività di sostegno agli ecosistemi tecnologici, scientifici e innovativi italiani con il suo Centro Innovazione, quelle di promozione della cultura e della lingua italiana dell’Istituto Italiano di Cultura, e quelle di promozione del Made in Italy all’estero e di internazionalizzazione delle imprese italiane di Ice.

Il Ces 2023

Quella del 2023 è un’edizione significativamente più grande rispetto al Ces 2022: 186 mila metri quadri di spazio espositivo, in aumento del 50%, 1000 espositori in più rispetto allo scorso anno, per un totale di 2400, pronti ad accogliere le più di 100 mila presenze attese nell’arco dei 4 giorni di expo. Un’edizione che vuole raccontare una tecnologia sempre più al servizio dei diritti umani, e che per la prima volta introdurrà la categoria prodotto Web3, che tiene insieme le tecnologie blockchain e il metaverso.

Il padiglione italiano

Oltre ai grandi marchi protagonisti delle esposizioni nella hall principale del Las Vegas Convention Center, sono 20 i paesi del mondo ad avere un padiglione dedicato nell’Eureka Park. Il padiglione Italia ospita una delegazione ricca e diversificata: dalla startup che ha creato una cover per smartphone con display per visualizzare una grafica personalizzata (cambiando quella invece di cambiare tutta la cover), ai parastinchi per giocare a calcio muniti di sensori che rilevano tutte le azioni e le giocate di chi li indossa, passando per un purificatore d’aria indossabile, un dispositivo di sblocco biometrico tramite onde cerebrali e tanti sistemi di intelligenza artificiale per processare grandi quantità di dati, scovando legami causali, formulando previsioni di comportamento o trovando il modo migliore per risparmiare energia.

Export: crescita su base annua in positivo (+21,2%)

Secondo un’indagine Istat, nel periodo gennaio-settembre 2022, la crescita su base annua dell’export è risultata molto sostenuta (+21,2%) e diffusa a livello territoriale, seppure con intensità diverse: l’aumento delle esportazioni è molto elevato per le Isole (+69,2%), intorno alla media nazionale per il Centro (+23,9%) e il Nord-ovest (+20,2%), relativamente più contenuto per il Nord-est (+17,7%) e il Sud (+15,3%). L’Istituto sottolinea che solo terzo trimestre 2022 si stima una crescita congiunturale delle esportazioni per quasi tutte le ripartizioni territoriali: +3,9% per il Centro, +2,0% per il Nord-ovest e +1,8% per il Nord-est.

Una contenuta flessione si rileva per il Sud e Isole (-0,6%). Nei primi nove mesi dell’anno, tutte le regioni italiane registrano incrementi delle esportazioni, a eccezione del Molise (-12,9%); i più marcati per Marche (+89,4%), Sardegna (+73,9%) e Sicilia (+66,7%). Il contributo più ampio alla crescita su base annua dell’export nazionale (5,4 punti percentuali) deriva dalla performance positiva della Lombardia (+20,5%).

Nello stesso periodo, l’aumento delle vendite di articoli farmaceutici, chimico-medicinali e botanici da Marche e Lazio e di metalli di base e prodotti in metallo da Lombardia e Veneto spiega per 3,7 punti percentuali la crescita dell’export nazionale; un ulteriore contributo di 1,9 punti deriva dalle esportazioni di prodotti petroliferi raffinati da Sicilia e Sardegna. All’opposto, la contrazione dell’export di autoveicoli da Abruzzo, Lombardia, Toscana e Molise e di prodotti in metallo dalla Toscana fornisce un contributo negativo di 0,6 punti percentuali alla variazione delle esportazioni.

Nei primi nove mesi del 2022, i contributi maggiori alla crescita su base annua dell’export nazionale derivano dall’aumento delle vendite della Lombardia verso Germania (+24,1%), Stati Uniti (+37,5%), Svizzera (+33,2%) e Spagna (+28,4%), delle Marche verso il Belgio (+391,0%) e dell’Emilia-Romagna verso gli Stati Uniti (+44,8%). Apporti negativi, invece, provengono dal calo dell’export di Toscana (-15,6%), Friuli-Venezia Giulia (-72,0%) e Veneto (-12,1%) verso la Svizzera, di Lombardia e Piemonte verso la Russia (rispettivamente, -22,5% e -37,4%) e dell’Emilia-Romagna verso il Giappone (-15,9%).

L’analisi provinciale dell’export mostra performance positive per quasi tutte le province italiane: i contributi positivi più elevati si rilevano per Milano, Ascoli Piceno, Siracusa, Torino, Brescia, Cagliari, Vicenza, Modena, Bergamo e Bologna. Si segnalano dinamiche negative per Piacenza, Chieti, Massa-Carrara, Campobasso, Gorizia, Crotone, Caltanissetta e Palermo.

Gli investimenti in comunicazione e PR non si fermano con guerra, crisi energetica e inflazione

World Report ICCO 2022-23: guerra, crisi energetica e inflazione non fermano gli investimenti in comunicazione e PR.

Nel 2022 priorità date a ESGs (44% dei consensi), Relazioni con Influencer (36%) e Consulenza Strategica (30%). Globalmente indice di fiducia sulla crescita degli affari a 7.3 punti su 10, in Europa al 6.9, in UK 6.6. Per i prossimi 5 anni, a livello mondiale, aspettative dai settori Tecnologia (60%), Healthcare (51%) e Servizi Finanziari e Professionali (44%). A dirlo il World Report ICCO 2022-23.

Pandemia, guerra in Europa, crisi energetica, iperinflazione: nonostante tutto, rimane l’ottimismo per il futuro del comparto delle Relazioni Pubbliche che, in media a livello globale, registra – rispetto al 2021 – un lieve aumento della fiducia su crescita e profittabilità. Le aspettative maggiori arrivano dai settori della tecnologia, del farmaceutico e dei servizi finanziari unitamente ai servizi offerti in comunicazione degli ESGs, Relazione con Influencer e Consulenza Strategica. Infine, sfide importanti lato Risorse Umane perché aumentano le difficoltà a trattenere i talenti e motivare i più giovani.

Questo in sintesi è quanto si evince dal World Report ICCO 2022-23, indagine sviluppata dall’International Communications Consultancy Organisation che è l’organizzazione globale che riunisce le associazioni di consulenza in comunicazione e PR in rappresentanza di 70 Paesi, Italia inclusa grazie a UNA PR Hub. Tra i principali elementi dello studio emergono:

1. Gli intervistati, in rappresentanza di circa 3.000 agenzie di consulenza in comunicazione e PR, hanno decretato ottimismo sulla crescita del comparto se pur con sostanziali differenze tra le diverse aree geografiche. Il mercato del Nord America fa segnare 8.2 punti di fiducia su 10, quello dell’America Latina 7.9, Asia-Pacific 7.8, Africa 7.2, Middle-East 7.2, Europa 6.9 e UK 6.6. In Europa Occidentale, in risposta agli choc causati dalla guerra in Ucraina, le aziende del comparto contano con maggiore intensità sul continuo sviluppo di servizi legati a: 1. Comunicazione degli ESGs 2. Consulenza Strategica e 3. Relazioni con Influencer. I settori più promettenti per il futuro sono invece rappresentati da 1. Healthcare 2. Tecnologia 3. Servizi Finanziari e Professionali.

2. L’ottimismo sull’Outlook mondiale 2023 – la media globale è di 7.3 punti di fiducia su 10 – viene alimentato da tre fattori chiave: 1. La maggiore attenzione dei CEO sulla Reputazione Aziendale 2. La rinnovata sensibilità dei consumatori sul ruolo sociale dei brand (purpose) 3. Un’attesa profittabilità crescente del comparto delle RP. In Europa Occidentale, l’ottimismo è più contenuto – 6.9 punti su 10 – ma rimane sostanzialmente buono nonostante gli choc e le tragedie causate dalla guerra in Ucraina. Le opportunità principali in comunicazione sono legate alle sfide prioritarie che le aziende clienti sono chiamate a vincere, tra le quali emergono: 1. Sostenibilità 2. Diversità, Equità e Inclusione 3. Data Privacy e Diritti dei consumatori.

3. Sul fronte delle skill ritenute più importanti per il futuro della professione, a livello globale il report presenta una top tre composta da: 1. Consulenza Strategica 2. Purpose e ESGs 3. Consulenza e Comunicazione in caso di Crisi. In Europa Occidentale, si presentano le stesse priorità, nello stesso ordine di importanza, evidenziando una sostanziale interconnessione tra le sfide delle diverse aree geografiche.

“In un contesto senza precedenti caratterizzato da choc come guerra, crisi energetica e inflazione, in molti mercati europei il business delle relazioni pubbliche e della consulenza in comunicazione è stato solido e in continua crescita. Una delle ragioni credo vada identificata nell’evoluzione del ruolo del nostro comparto, chiamato – in tempi tragici e di cambiamenti epocali – ad aiutare aziende e istituzioni a definire autenticamente ‘chi’ sono e a comunicare chiaramente questa identità a tutti i loro stakeholder, interni e esterni. Il passaggio è quindi dal ‘perché’ un brand esiste a ‘chi è o vuole essere’. Questo comporta un legame indissolubile tra impegni aziendali, azioni concrete e comunicazione che oggi diventa quindi ancora più strategica” afferma Massimo Moriconi, Amministratore Delegato di Omnicom PR Group Italia e Presidente Europeo di ICCO.

“È gratificante vedere come il business delle relazioni pubbliche continui a crescere, nonostante le forti contro correnti. I professionisti del nostro settore, in Italia e all’estero, hanno saputo adattare le proprie skills, fornendo servizi che permettono ai clienti di gestire al meglio le tante sfide che devono affrontare”, conclude Martin Slater, Presidente di Noesis e membro del Board di ICCO come rappresentante UNA PR HUB.