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I comunicatori, tramite tra il mondo e l’impresa

di Alessandro Cederle

Quando si parla senza ascoltare non si sta facendo comunicazione; si sta tenendo un comizio. Questo il punto di partenza di una riflessione sui cambiamenti in atto nel mondo delle PR e in particolare della Media Intelligence, ai margini di un recente incontro tra aziende internazionali del settore, ospitato da L’Eco della Stampa. Un’occasione preziosa per gettare lo sguardo su come sta cambiando il mercato del monitoraggio e dell’analisi dei media su scala globale, dall’Europa all’Asia, dalle Americhe all’Africa. Fino all’Italia. Che ha “vinto facile” la partita legata al ruolo di paese ospitante, sfoderando di fronte agli stranieri la nostra arma non tanto segreta, ovvero il fascino assoluto del Bel Paese, protagonista il Lago Maggiore in quel di Ranco, paesino incantevole in punta di penisola, accarezzato dal sole dei primi giorni della primavera 2019. Quando si tratta di mettere a frutto gusto, bellezza, spirito artistico, cultura, clima, senso dell’ospitalità e intelligenza, non siamo secondi a nessuno. Questa non è un’osservazione estetica e dovremmo ricordarcene più spesso in un mondo dove la qualità è la nova quantità e ogni fattore di successo è necessario per combattere una concorrenza globale sempre più aggressiva.

Il mondo non è più lo stesso, il mondo sta cambiando; è un ritornello che sentiamo ormai con eccessiva frequenza, tanto da diventare tedioso e scontato. Quello che è certo è che il modo di comunicare che ci ha accompagnato fino all’inizio degli anni 90 sta scomparendo, se già non è proprio bell’e che svanito. Bei tempi quelli, al vertice dell’Hit Parade c’era l’estate italiana di Bennato/Nannini, il dudududadada di Mietta/Minghi e il Phil Collins di Another Day in Paradise. Fast forward, trent’anni dopo il paradiso di Phil può attendere e ci ritroviamo a vivere di YouTuber e Influencer.

Quello che è successo da allora ha “disrupted” i modi di trasmettere un messaggio, nel passaggio dall’enorme imbuto dei mass media ai nuovi mezzi che trascendono la passività del pubblico facendo del link e dell’interattività i propri principi cardine. Link e interattività scoloriscono il ruolo centrale del messaggio in quanto tale, spostando il baricentro all’esterno, sulla rete, il social graphche è la vera sostanza della conversazione in corso. Ci definiamo in quanto parte di una rete, più di quanto veniamo definiti dal contenuto dei messaggi che scambiamo. Così come l’interattività distrugge qualsiasi tentazione di monolateralità. Non si trasmettono più messaggi, si passeggia (virtualmente) e si entra a far parte delle conversazioni in corso tra gruppi di amici, o nei capannelli che spontaneamente si formano attorno ad argomenti di interesse.

Il lavoro del comunicatore dunque non consiste più nella capacità di costruire la notizia, quanto piuttosto nella capacità di leggere e analizzare contesto e pubblico per creare, per costruire un “network di attenzione”.

«La vera risorsa scarsa non è il denaro, è il tempo» chiosava in Wall Street 2 Gordon Gekko (quello di «se proprio vuoi un amico cercati un cane”). «Il nostro vero concorrente non è HBO, ma Twitch» ha insistito recentemente il Reed Hastings di Netflix. Gli eserciti non si battono più per il real estate, per occupare i territori, che siano centimetri quadrati di giornale o secondi in un dibattito televisivo. La nostra guerra è quella per essere rilevanti all’interno delle conversazioni tra persone. Le nazioni si scontrano su Facebook, fanno mud wrestlingtra notifiche, cuoricini e commenti, invece di combattersi ai confini fisici – grande tema quello dei confini, vecchi e nuovi e se ne occuperà fino in fondo la prossima edizione di Inspiring PR.

L’attenzione delle persone è la pietra filosofale dell’era convulsa e disordinata che stiamo vivendo; e creare le condizioni per l’attenzione è il mestiere del comunicatore.

Occorre battersi per essere percepiti come interessanti, sudando engagement sui canali sui quali le persone condividono praticamente tutto. Gran brutta moda quella dello sharing, non rispetta né privacy né pudore, non permette alcuna forma di controllo. “Quello che arriva in rete appartiene alla rete” mi raccontava un adolescente qualche settimana fa. Da questo brodo primordiale, confuso e sregolato, occorre passare per costruire quell’interesse delle persone che poi rende il brand rilevante. La pena per chi non ci riesce? L’irrilevanza appunto, il mondo delle tenebre per tante marche triturate dalla timeline, serpente orrendo che sempre striscia e mai si ferma e che in troppi cercano di combattere inutilmente a colpi di organic advertising.

Ma che bello che era una volta, come si viveva bene! Il mondo dei mass media era gestito da una filiera chiaramente delineata e stabile, un mondo molto più semplice, prevedibile e dunque controllabile. Quello dei social è inesorabilmente eterodiretto e non fa sconti a nessuno. Chi sostiene che sia possibile pianificare la viralità sta mentendo e si salva la faccia acquistando likenei paesi dove costano pochi dollari al quintale.

È necessario mettere davanti la capacità di leggere, comprendere, analizzare; cogliere la focalizzazione delle persone dove si forma e dove si trasforma; sapere entrare nella conversazione mentre si svolge, con un’attenzione quasi antropologica; porsi sempre come utili e rilevanti in base all’argomento e al mood del momento, altrimenti tacere; sottrarsi alla tentazione sempre ricorrente di parlare di sé stessi, dei propri prodotti, della propria mission; evitare il gergo da marketing che suona sempre più logoro, stantio e in alcuni casi francamente offensivo: target, pubblico, nicchia, segmento, stakeholder e poi il peggiore di tutti, consumatore, l’essere umano concepito come ente dotato dell’attitudine al consumo. È necessario apprezzare e valorizzare la dimensione personale del mondo. Sostituire il groove al comunicato.

Le PR di oggi vanno oltre i messaggi chiave e la protezione dalle cattive notizie. Devono piuttosto rispondere alla domanda dell’impresa che vuole (diciamo la verità, deve, è costretta a…) costruire il proprio business in ragione, in funzione, all’interno di un mondo che è diventato stretto, piccolo, totalmente interconnesso, attivo 24/24, dotato di reattività immediata, fulminea, su scala globale e maledetto da un “pensiero breve e veloce” che esige soddisfazione immediata, non lascia spazio a ripensamenti, a precisazioni e a qualsivoglia tipo di pietà umana.

Per ottemperare a questo compito occorre andare più in profondità, accettare una sfida inedita, chiedere al cliente, interno o esterno che sia, un coinvolgimento molto più profondo; attivare un piano strategico della comunicazione e dell’ascolto. Le “nuove PR” saranno tanto più efficaci nel garantire la reputazione aziendale quanto più sapranno favorire una rilettura della strategia della società alla luce della comprensione di quello che davvero importa alle persone.

Già, ma cosa ne pensa il CEO, l’Amministratore Delegato, uno che sui social ci va poco e giusto per non fare figure con i figli, uno che l’ultima volta che è salito in metrò era ancora all’università, neanche guida perché ci pensa l’autista, e non sa che al McDonald’s ormai le ordinazioni si fanno su uno schermo? Ebbene, anche lui è salito a bordo. Secondo uno studio condotto da Deloitte, l’87% dei top manager pensa che i rischi legati alla reputazione online del brand sono di gran lunga più pericolosi di tutti gli altri rischi strategici. Di gran lunga più pericolosi.

Molta strada c’è ancora da fare. È preoccupante vedere aziende che insistono nello sbarcare su Facebook con un approccio tradizionale, “anni ‘90”, allestendo una bella vetrina che lancia un tornito messaggio istituzionale … sullo stesso canale usato per il revenge porn e il reclutamento di terroristi. Meglio stare lontani, certo, aprire l’account, ma proprio solo per evitare il cyber squatting, disabilitare i comenti e utilizzarlo solo per comunicare l’orario di apertura delle filiali e il numero verde del call center (che tra l’altro spesso mancano, alla faccia dell’interesse, dell’utilità e della rilevanza, e ci deve pensare Google Maps).

E la capacità dell’ufficio stampa di non fare uscire le notizie scomode? Beh, se le chiamano shit storm una ragione ci sarà, e non sto qui a tradurre.

Occorre vivere il momento e acquisire l’abilità di stare in mezzo alla tempesta, esercitando influenza (influencer, non stanno lì per caso) su quello che passa tra la folla. La scommessa ha una posta enorme. I comunicatori possono essere il tramite tra questo nuovo mondo e tutta l’impresa, gli artefici di un riorientamento di aziende ed enti nei confronti di una società digitale che è qui per restare. Nell’anno di Leonardo, altra luminosa stella nostrana, può essere il principio di un nuovo rinascimento dell’arte delle PR, centrato su un ascolto attivo e consapevole.

#MercatoLavoro di Rita Palumbo