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Il blogger non è un Internet Service Provider

Lo scorso 20 marzo la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata per confutare l’assunto secondo il quale la disciplina degli Internet Service Provider possa essere estesa agli amministratori di blog.

Ancora una volta la Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 12546 del 20 marzo 2019) si è pronunciata sulla responsabilità dei protagonisti del web, questa volta per confutare l’assunto secondo il quale la disciplina degli Internet Service Provider (ISP) possa essere estesa sic et simpliciter agli amministratori di blog.

Con la diffusione di internet e quindi con l’aumento esponenziale delle occasioni di connessione e condivisione in Rete, si è posto il problema della previsione normativa di fattispecie che disciplinino un sistema sanzionatorio finalizzato ad arginare il fenomeno della graduale crescita degli illeciti commessi dagli internauti. La casistica di illeciti è variegata e, in ragione della iperbolica amplificazione del sistema, crea forti problematiche di tipizzazione: domain grabbing, furti di identità, cyberbullismo, diffamazione a mezzo internet, accesso abusivo a reti informatiche, pedopornografia e numerosi altri fenomeni.

In particolare, le condotte diffamatorie sono state facilitate dalla possibilità, per un numero esponenziale di utenti di internet, di esprimere giudizi su tutti gli argomenti trattati, con la conseguenza che agli “opinionisti social” spesso si associano i cosiddetti “odiatori sul web” i quali non esitano – soprattutto dietro l’anonimato – ad esprimere giudizi offensivi.

Fuor di dubbio, per un consolidato orientamento della Suprema Corte, è che il commento diffamatorio propalato in Rete integri un’ipotesi di diffamazione aggravata in quanto si tratta di un’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa (art. 595, comma 3, cod. pen.), capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone.

Controverso è invece il tema della responsabilità dei fornitori di servizi informatici (ISP).

Premesso che anche i providers rispondono degli illeciti posti in essere in prima persona, la problematica riguarda invece il caso in cui questi siano chiamati a rispondere di un fatto illecito altrui, posto in essere avvalendosi delle infrastrutture dal medesimo messe a disposizione (l’hosting provider, dall’inglese “to host” che significa “ospitare”, fornisce all’utente, ospitandolo appunto, uno spazio telematico da gestire).

La normativa di riferimento è contenuta nel decreto legislativo del 9 aprile 2003 n. 70, emanato in attuazione della Direttiva europea sul commercio elettronico 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico.

La Direttiva europea non impone al provider né l’obbligo generale di sorveglianza ex ante, né tanto meno l’obbligo di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. Impone loro, tuttavia, di informare prontamente degli illeciti rilevati le autorità competenti e di condividere con le stesse ogni informazione che possa aiutare a identificare l’autore della violazione. La mancata collaborazione con le autorità fa sì che i providers vengano ritenuti civilmente responsabili dei danni provocati.

Con il contratto di hosting, dunque, i providers sono responsabili nel caso in cui, effettivamente a conoscenza della presenza di un contenuto illecito sui propri server, omettano di rimuoverlo. Sotto il profilo penale pertanto si può affermare che l’ISP risponda per concorso omissivo nel reato commissivo dell’utente che “carichi” in Rete un contenuto penalmente illecito.

E proprio in questo sta la inapplicabilità della disciplina prevista per i providers agli amministratori di blog. Questi ultimi non forniscono alcun servizio di hosting, bensì si limitano a mettere a disposizione degli utenti una piattaforma sulla quale poter interagire attraverso la pubblicazione di contenuti e commenti su argomenti nella maggior parte dei casi proposti dallo stesso blogger, in quanto caratterizzati dalla linea, che si potrebbe definire (anche se impropriamente) “editoriale” o in ogni caso “tematica”, impressa proprio dal gestore della piattaforma.

Il blog è concepito principalmente come contenitore di testo (ovvero come diario o come organo di informazione indipendente), aggiornabile in tempo reale. Inoltre qualora l’autore del blog lo permetta, al post possono seguire i commenti dei lettori. Il blog consente dunque l’interazione anche con soggetti terzi, che possono rimanere anonimi.

Orbene, ritenere il blogger responsabile per tutto quanto scritto sul proprio sito anche da altri soggetti, significherebbe ampliare a dismisura il suo dovere di vigilanza, ingenerando un eccessivo onere a suo carico. Tuttavia, se il blog è stato implementato di alcuni filtri nella pubblicazione dei contenuti, per evitare conseguenze penali, il gestore è tenuto a vigilare e approvare i commenti prima che questi siano pubblicati.

Conseguentemente, va esclusa una responsabilità personale del blogger ogni qualvolta questi, reso edotto dell’offensività della pubblicazione, decide di intervenire prontamente a rimuovere il post offensivo.

Pertanto in caso di non tempestiva attivazione da parte del blogger nella rimozione di commenti offensivi pubblicati da soggetti terzi sul suo blog questi ne risponderà non per aver omesso di impedire l’evento diffamatorio ex art. 40, comma 2, cod. pen., non per culpa in vigilando ex art. 57 cod. pen. come accade per il direttore o vice-direttore di un periodico, stante la non equiparabilità di un blog ad un periodico, neppure telematico, attinente alla sfera dell’informazione di impronta professionale, bensì – in assenza di norme specifiche – a titolo di consapevole condivisione del contenuto lesivo dell’altrui reputazione, con ulteriore replica dell’offensività dei contenuti pubblicati.

In altri termini, se il gestore del sito apprende che sono stati pubblicati da terzi contenuti obiettivamente denigratori e non si attiva tempestivamente a rimuoverli, finisce per farli propri e quindi per porre in essere ulteriori condotte di diffamazione, che si sostanziano nell’aver consentito, proprio utilizzando il suo blog, l’ulteriore divulgazione delle stesse notizie diffamatorie.