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L’inverno demografico italiano e le sue conseguenze

Per tutta la storia dell’umanità, fino a poche generazioni fa, il rinnovo generazionale era garantito da una elevata fecondità (attorno o oltre i 5 figli in media per donna) che compensava alti rischi di morte in tutte le età della vita. Il passaggio da tale regime a quello contemporaneo viene chiamato “transizione demografica”. Teoricamente tale transizione dovrebbe portare a un nuovo equilibrio con un tasso di fecondità attorno a due figli per donna. Se, infatti, i rischi di morte dalla nascita fino all’entrata in età anziana scendono vicino a zero, bastano in media due figli per sostituire i due genitori. Tale valore rappresenta pertanto la soglia di equilibrio nel rapporto tra generazioni (livello di rimpiazzo generazionale).

Nel caso la fecondità rimanga persistentemente al di sotto, le generazioni più giovani diventano via via meno numerose rispetto a quelle precedenti e la popolazione va a declinare (e invecchiare). Sopra tale soglia, viceversa, la popolazione tende ad aumentare.

LE DINAMICHE DEMOGRAFICHE MONDIALI. I diversi ritmi di crescita demografica nelle varie aree del mondo dipendono dalla diversa fase in cui esse si trovano rispetto al percorso di transizione dall’alta alla bassa fecondità. La fecondità mondiale era ancora attorno a 5 alla metà del secolo scorso e risulta attualmente pari a 2,3 figli per donna. Tale dato, che nelle previsioni delle Nazioni Unite dovrebbe scendere vicino a 2 alla fine del secolo, è però il risultato di situazioni molto diverse nelle varie regioni del pianeta. Se ci sono ancora paesi con un numero medio di figli ben superiore alla soglia di rimpiazzo generazionale (in particolare l’Africa subsahariana ha attualmente un tasso di fecondità attorno a 4,5), sono oramai due terzi gli Stati del mondo scesi al di sotto. Questo secondo gruppo è in continuo allargamento. Non contiene più solo i paesi occidentali, il Giappone e la Corea del Sud, ma sempre più anche altri Stati, compresi i due giganti asiatici (Cina e recentemente India).

Un aspetto importante che risulta sempre più evidente dalle dinamiche di questo gruppo – diventato prevalente e destinato in prospettiva a inglobare tutto il mondo – è che le nazioni che scendono sotto il livello di equilibrio generazionale tendono a non risalire al di sopra ma ad assestarsi, in varia misura, al di sotto. Ciò nonostante, come molte ricerche confermano, il numero di figli ideale sia considerato generalmente pari a due. Questo significa che la transizione demografica non evidenzia, nel percorso finora osservato, il raggiungimento di un nuovo equilibrio. Nei paesi che in teoria l’hanno conclusa, la longevità continua a estendersi da una generazione alla successiva e la fecondità rimane sotto la soglia di rimpiazzo.

Il secondo gruppo di paesi potremmo dividerlo ulteriormente in tre gruppi, ben distinguibili anche all’interno della stessa Europa. Un primo gruppo sta riuscendo a mantenere la fecondità non troppo sotto i due figli per donna. Francia e Svezia sono i due casi più interessanti. Pur nella diversità dei due modelli di welfare, alla base c’è una continua attenzione alla conciliazione tra impegno lavorativo e responsabilità familiari. Il primo paese è stato, sinora, un esempio di solidità delle politiche familiari, mentre il secondo è un esempio di laboratorio in continua sperimentazione.

Un secondo gruppo è costituito dai paesi scesi molto sotto il livello di equilibrio generazionale ma poi risaliti. Vi rientra larga parte dell’Est Europa. Il caso più interessante è però quello della Germania. Come conseguenza degli squilibri prodotti nel tempo dalla denatalità, la componente giovane-adulta tende a ridursi. Gli effetti migliori sulle nascite sono, pertanto, quelli che si ottengono combinando le politiche familiari con la capacità di attrarre e gestire flussi migratori di persone in età lavorativa e riproduttiva. Nel decennio scorso la Germania è il paese che maggiormente ha agito su queste due leve e come conseguenza le nascite sono sensibilmente aumentate, mentre nei paesi dell’Est Europa sono state stabili o con variazioni limitate.

Il terzo gruppo è, infine, rappresentato dai paesi in cui la fecondità rimane persistentemente bassa. Vi rientrano i paesi dell’Europa mediterranea e in particolare l’Italia.

 

ITALIA, IL RISCHIO DEMOGRAFICO. L’Italia è entrata in crisi demografica tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, quando il numero medio di figli per donna è crollato da oltre 2 figli a meno di 1,5, andando poi a posizionarsi su livelli tra i più bassi al mondo. Risulta attualmente uno dei paesi che da più lungo tempo si trovano su livelli così bassi. Le dinamiche recenti, in particolare dopo la grande recessione del 2008, sono state poi ulteriormente peggiorative. Il tasso di fecondità è passato da 1,44 nel 2010 a 1,27 del 2019. Il dato è poi sceso a 1,25 negli anni della pandemia.

L’esito complessivo è un esaurimento della capacità endogena di crescita della popolazione italiana, entrata dal 2014 in fase di declino, con un saldo naturale negativo non più compensato nemmeno dall’immigrazione. La questione che ora si pone non è far tornare a crescere la popolazione (destinata in ogni caso a diminuire), ma quanto lasciare aumentare gli squilibri interni tra generazioni. L’Italia è stato il primo paese al mondo in cui i residenti under 15 sono scesi sotto gli over 65. Quest’ultima fascia d’età ha ora raggiunto l’entità degli under 25 ed entro il 2040 (forse già entro il 2035) supererà anche gli under 35.

L’Italia sarà, inoltre, il primo Stato del vecchio continente a portare entro questo decennio l’età mediana della popolazione oltre il traguardo dei 50 anni (rendendo così prevalenti nella penisola le persone con età superiore al mezzo secolo). Se oggi ci troviamo con un rapporto tra over 65 e popolazione attiva tra i peggiori al mondo, tale valore potrebbe raddoppiare entro il 2050. Secondo le stime ocse (pubblicate nel report “Working Better with Age” nel 2019) siamo il paese con maggiore rischio di trovarsi a metà di questo secolo con un rapporto di 1 a 1 tra pensionati e lavoratori.

 

LE CONSEGUENZE DELLO SQUILIBRIO TRA GENERAZIONI. Per avere un’idea delle implicazioni degli squilibri nel rapporto tra generazioni, supponiamo che esistano nel mondo due paesi. Il primo ha un numero medio di figli per donna che si mantiene nel tempo poco sotto 2. Di conseguenza, pur con un saldo migratorio positivo, la popolazione non cresce ma nemmeno diminuisce (o si riduce molto lentamente). Ogni nuova generazione ha una consistenza sostanzialmente in linea con quelle precedenti. L’invecchiamento della popolazione risulta moderato e determinato di fatto solo dall’aumento della longevità. Diventa quindi più facile gestire tale processo come opportunità da cogliere, investendo sulle condizioni di una lunga vita attiva.

Il secondo paese ha invece una fecondità sotto 1,5. Di conseguenza la popolazione è in sensibile diminuzione: il saldo tra nascite e decessi diventa sempre più negativo e l’immigrazione non riesce più a compensarlo. A fronte di una popolazione anziana che aumenta il proprio peso, la riduzione della natalità rende sempre più debole la consistenza delle nuove generazioni. Si indebolisce la forza lavoro e peggiora fortemente il rapporto tra anziani e popolazione attiva, con conseguente maggiore difficoltà, rispetto al primo paese, sia di produrre ricchezza e benessere, sia di rendere sostenibile e far funzionare il sistema di welfare pubblico. Tutto questo vincola al ribasso anche le risorse che possono essere investite sulle nuove generazioni, in particolare sulla formazione, sugli strumenti di transizione scuola-lavoro, sull’autonomia e la formazione di una propria famiglia. Sempre più giovani preferiranno spostarsi nel primo paese, che fornisce migliori opportunità di realizzazione sia professionale che di vita.

Di fronte a squilibri demografici che aumentano, la stessa immigrazione diventa una leva sempre più debole: un territorio che non offre adeguate condizioni di valorizzazione e di sostegno progettuale agli autoctoni difficilmente diventa attrattivo per giovani dinamici e qualificati dall’estero, i quali tenderanno piuttosto a scegliere il primo paese. In un contesto di questo tipo rischiano di aumentare anche tensioni e diseguaglianze sociali, rendendo più instabile lo stesso quadro politico.

L’Italia è tra le economie mature avanzate che maggiormente si avvicinano a questa situazione. Va aggiunto che le nascite italiane non sono solo a livello basso, ma anche posizionate su una scala mobile che le trascina ulteriormente in giù. Questa scala mobile è rappresentata dalla struttura per età della popolazione, la quale, per conseguenza della denatalità passata, è in progressivo sbilanciamento a sfavore delle generazioni giovani-adulte (la fonte di vitalità di un paese). Più il tempo passa, più diventa difficile (e se continua così tra pochi anni anche impossibile) invertire la curva negativa delle nascite.

I TRE OSTACOLI ALLA SCELTA DI FARE FIGLI. Ovviamente nessuno si convince ad avere figli per l’esigenza di evitare gli squilibri demografici. Tali considerazioni non entrano nel processo decisionale di coppia, ma dovrebbero entrare nelle scelte collettive. Se una comunità considera la nascita di un figlio non solo come costo e complicazione individuale a carico dei genitori, ma come valore collettivo che rende più solido il futuro comune, tenderà a investire su strumenti che mettono chi desidera un bambino nella condizione non solo di averlo ma di accedere anche alle migliori opportunità di crescita.

È utile osservare che ciò che distingue l’Italia dal resto d’Europa non è il numero di figli desiderato (attorno a 2), ma quello realizzato (pari a 1,25). Dal confronto con altri paesi europei con fecondità più elevata, a parità di numero di figli desiderati quello che si nota è la maggior presenza al sud delle Alpi di tre principali scogli. Superarli va nella direzione di favorire la realizzazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, oltre che mettere le persone nelle condizioni di realizzare i propri progetti di vita.

Il primo scoglio è relativo al tempo di arrivo del primo figlio ed è da ricondurre alle difficoltà dei giovani nella transizione scuola-lavoro e nel conquistare una propria autonomia dalla famiglia di origine. Intervenire su questo punto critico è coerente con la realizzazione degli Obiettivi 4 e 8 (“fornire una educazione di qualità equa e inclusiva” e “occupazione piena e produttiva e un lavoro dignitoso per tutti”).

Il secondo scoglio è quello che ostacola il percorso oltre il primo figlio. Se con la nascita del primogenito ci si trova in difficoltà ad armonizzare l’impegno esterno lavorativo e quello interno alla famiglia (per carenza di strumenti di conciliazione e di misure a favore della condivisione tra madri e padri), difficilmente si rilancia con la nascita di altri figli. Superare questi limiti va nella direzione della realizzazione dell’Obiettivo 5 (“favorire l’uguaglianza di genere”).

Infine, il terzo scoglio è da ricondurre al rischio di povertà di chi sceglie di avere un figlio. Esiste in Italia una forte relazione tra età della persona di riferimento della famiglia e povertà assoluta. Questa relazione si è andata rafforzando e poi consolidando nel tempo. In particolare, per tutto il decennio pre-pandemia il rischio di povertà è stato quasi il doppio tra gli under 35 rispetto agli over 65. A essere lasciata esposta, quindi, a condizioni di vulnerabilità economica è proprio la fase in cui si è chiamati a mettere su basi solide i propri progetti di vita. Un altro dato di rilievo che caratterizza la povertà in Italia è lo stretto legame con il numero di figli. I dati riferiti al 2019, peggiorati poi con la pandemia, mostrano come la povertà assoluta sia oltre il triplo per chi ha tre bambini rispetto a chi si ferma a uno. Contenere questo rischio va nella direzione degli Obiettivi 1 e 10 (“porre fine a ogni forma di povertà” e “Ridurre le diseguaglianze sociali”).

La meno solida posizione nel mercato del lavoro dei giovani italiani, le maggiori difficoltà a conciliare il lavoro di entrambi i membri della coppia con la cura dei figli, le più deboli e frammentate misure di sostegno alle famiglie con bambini, rendono relativamente più rilevante rispetto alla media europea l’impatto di una nascita sull’economia familiare. Anche il costo dei figli tende comunque a essere maggiore, ma soprattutto più protratto nel tempo per la maggiore permanenza nella famiglia di origine.

 

INVERTIRE LA TENDENZA PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI. Arrivati all’impatto della pandemia si tratta ora di capire se l’Italia – al netto di un rimbalzo per il recupero di progetti di vita congelati durante la crisi – si porrà in continuità con il passato o se la combinazione tra le misure contenute nel PNRR e nel Family act, adeguatamente implementate su tutto il territorio, darà la spinta necessaria per l’entrata in una fase nuova, di solida inversione di tendenza prima che sia definitivamente troppo tardi. Per riuscirci, partendo dai livelli più bassi in Europa e con una struttura demografica più compromessa, è necessario passare dall’essere stati nel decennio scorso i peggiori a porsi ora come l’esempio da seguire nelle politiche familiari e per le nuove generazioni.

Non è questione di una singola misura, serve un approccio sistemico e integrato. L’aumento delle nascite, dell’occupazione giovanile e della partecipazione femminile, assieme a una immigrazione con possibilità di adeguata integrazione, convergono in modo coerente a portare l’Italia verso lo scenario più alto tra quelli previsti dall’Istat all’orizzonte del 2050, rafforzando le condizioni di sviluppo inclusivo e sostenibile. Viceversa, la depressione ulteriore delle nascite (scenario più basso) si associa anche a persistenti difficoltà dei giovani a formare una propria famiglia, a una bassa conciliazione nelle coppie tra famiglia e lavoro, al rischio di povertà delle famiglie con figli.

 

Fonte: ASPENIA