Skip to content

Morto Harold Burson

Harold Burson, fondatore di Burson-Marsteller e uomo votato come il più influente PR del XX secolo, si è spento a 98 anni a New York il 10 gennaio.

Riportiamo una conversazione di Toni Muzi Falconi con Harold Burson. Un testo prezioso, commovente, lungimirante. Da non perdere.

Intervista a Harol Burson per Prima Comunicazione, settembre 2006

Harold Burson:
quando servono giovani rinascimentali, la relazioni pubbliche sfornano più specialisti. Il processo va invertito…

Intervista esclusiva di Toni Muzi Falconi al Presidente e Fondatore della Burson Marsteller, il più influente relatore pubblico del ventesimo secolo, in arrivo in Italia ai primi di Ottobre.

Sarà a Milano per un giro di incontri professionali, accademici e con la comunità dei comunicatori italiani, il 12 e 13 Ottobre, dopo venti anni di assenza*. A 85 anni, il relatore pubblico più influente del mondo parla con Prima della sua ‘disciplina’, della sua reputazione e delle prospettive di un mestiere che attira decine di migliaia di giovani in tutto il mondo e il 12 mattina i docenti e studenti della IULM lo onoreranno con un ‘premio alla carriera’.
(boxino?)*Il 13 Ottobre alle 17 presso l’Aula Magna dell’Università IULM, la Ferpi, l’Assorel e l’Università che ha avviato il primo corso di Laurea in Relazioni Pubbliche da oltre 10 anni, consegneranno a Harold Burson, che pronuncerà un discorso, il Premio alla Carriera. La prima edizione del Premio fu consegnato nel 2002 all’italiano Aldo Chiappe.

‘Well Toni it looks like we have a problem’ (…pare proprio che abbiamo un problema…).
Erano le 9 di mattina di un infuocato giorno di agosto del 1988 e Harold Burson entrò sornione nel ‘mio’ ufficio all’ultimo piano della sede centrale della Burson Marsteller di New York, ove stavo preparando il mio stabile insediamento di Senior Vice President Practice Development -una sorta di direttore mondiale del mega centro studi della professione più apprezzato al mondo- della maggiore agenzia internazionale di relazioni pubbliche.

Era successo che la sera prima a Milano, e a mia insaputa, tre dei giovani più brillanti della squadra professionale di SCR Associati (l’agenzia leader in Italia la cui vendita alla Burson avevo appena definito nei dettagli con i miei soci) si erano improvvisamente dimessi annunciando che non condividevano l’operazione e che sarebbero andati a lavorare per un concorrente. Il nostro accordo era dunque saltato… Presi il primo aereo per Milano nel tentativo di convincere i tre a rientrare… ma dopo una interminabile notte di discussione, senza alcun successo.
Quella era stata quella l’ultima volta che avevo visto Harold.

Per i più curiosi, i tre giovani erano Luca Mortara, oggi imprenditore di successo in proprio; Sandro Pellò, oggi vicepresidente della Hill & Knowlton; e Davide Cefis, fino a ieri direttore relazioni pubbliche di BNL , appena migrato nel ruolo di ‘cacciatore di teste’ per la Eric Salmon in Italia e il concorrente era la Livraghi, Ogilvy & Mather.

Sono passati da allora 18 anni e Harold, 85 anni compiuti, è lucido, perspicace, appassionato e potente come e più di allora.

PR Week, la più conosciuta rivista internazionale del settore, lo ha recentemente definito il professionista di relazioni pubbliche più influente del ventesimo secolo.
Condivido questo giudizio, con la necessaria aggiunta che il leggendario Edward Bernays (definito dallo speciale del settimanale Life dedicato al 2000 uno dei cento personaggi più influenti in assoluto del secolo) ebbe una maggiore influenza nel definire i connotati e ottenere l’accettazione generale della professione negli Stati Uniti.
Ma non v’è alcun dubbio che, grazie anche allo sviluppo di una impresa internazionale di tale successo, Burson è stato decisivo per la crescita di migliaia di ottimi professionisti oggi attivi in ogni tipo di organizzazione nei più diversi Paesi.
Quindi, se Bernays fu la principale figura per lo sviluppo di quel modello americano di relazioni pubbliche fondato sulla comunicazione persuasiva, retorica, asimmetrica e a supporto del marketing; Harold è stata la persona che, più di chiunque altro, ha contribuito alla diffusione di quello stesso modello nelle organizzazioni di tutti Paesi occidentali e anche in quelli in via di sviluppo.

“Vedi
-risponde Burson alla domanda ‘cosa pensavi di Bernays quando eravate tutti e due operativi?’ lui era il vero filosofo della nostra disciplina. I concetti espressi nel suo libro del 1923 ‘Crystallizing Public Opinion’ sono ancora validi oggi e dovrebbero essere lettura
obbligatoria per chiunque abbia interesse al nostro settore, insieme all’altro classico Opinione Pubblica di Walter Lippmann scritto nel 1922.
Pur non essendomi mai personalmente piaciuto… perché era il più egocentrico individuo che abbia
mai incontrato… Bernays ha istituzionalizzato quella che ancora oggi consideriamo la nostra
metodologia di base”.

Rispetto al vivace dibattito in corso fra alcuni studiosi che definiscono le relazioni pubbliche una professione e i tanti professionisti che invece la definiscono una industria, quale è la tua opinione?

‘Esiterei a chiamarla una professione, ma anche una industria.
Forse possiamo trovare un accordo sul termine ‘disciplina organizzativa’, oppure ‘funzione’?
Non è ancora una industria perché troppo piccola e perché copre un spettro troppo ampio di attività; e non è neppure una professione poiché dobbiamo ancora soddisfare molti criteri e il nostro corpo di conoscenze non è ancora sufficiente.. anche se compiamo rapidi progressi; e lo dico con cognizione perché la banca-dati di casi di studio della Burson Marsteller è verosimilmente la più completa al mondo.

Spiega ai lettori di Prima come e in quale direzione la nostra ‘disciplina’, come preferisci definirla, compie quei progressi che dici.

Quando avviai questo lavoro in un piccolo studio di consulenza a New York alla fine degli anni quaranta del secolo scorso, i clienti chiedevano
‘come lo dico?’.
Poi, negli anni sessanta, settanta e ottanta, quando mi unii con Bill Marsteller, che allora dirigeva una agenzia di pubblicità industriale, per dimostrare la sensatezza di una consapevole integrazione fra relazioni pubbliche e pubblicità, i clienti hanno iniziato a chiedermi
‘cosa dico?’.
Più recentemente, e con sempre maggiore frequenza, mi chiedono
‘cosa faccio?’
Per me le relazioni pubbliche sono quella disciplina che aiuta il comportamento di una organizzazione a rapportarsi con l’interesse pubblico e, se condotte efficacemente, creano opinioni e attitudini che motivano i pubblici alle azioni auspicate.
O, se preferisci una definizione più sintetica, ti dirò che le relazioni pubbliche sono
il fare bene e il venire riconosciuti per averlo fatto.
Ho risposto alla tua domanda?

Direi proprio di si. Eppure… sai meglio di me che per la maggior parte delle persone, anche interne alla nostra ‘disciplina’, le relazioni pubbliche sono in buona sostanza relazioni con i media, e diventa arduo sostenere che abbiano qualcosa in comune con il rapportarsi di una organizzazione all’interesse pubblico….O no?

Hai ragione, Toni, ma non in tutti i sensi.
Devi ricordare che i media giocano un ruolo fondamentale per la diffusione della informazione.. e che i giornalisti credono che il nostro unico lavoro sia quello di scrivere comunicati stampa….
Secondo me la cosa peggiore mai capitata alle relazioni pubbliche è stata il cambiamento della denominazione di quel che facciamo da relazioni a comunicazione; un cambiamento che la gran parte di noi ha passivamente subito, anche se non faceva che rinforzare lo stereotipo di quel che i media pensano che noi facciamo.
Pensa a questo semplice dato:
°nel 1973, l’80 per cento delle 500 maggiori imprese classificate per dimensione di fatturato dal mensile Fortune includevano il termine relazioni pubbliche nel titolo del loro più alto dirigente addetto;

°arriviamo al 1980 e non più del 15 per cento mantenne quella denominazione, mentre le altre lo avevano modificato in comunicazione.
Cosa è successo, mi chiedi?
La mia spiegazione è che nel 1973/74 la pervasiva diffusione mediatica dei nastri registrati del caso Watergate –nei quali il Presidente Nixon si riferisce ossessivamente alle relazioni pubbliche ogni volta che suggerisce ai suoi consiglieri qualche azione illegale o anche soltanto eticamente discutibile per insabbiare lo scandalo- è stata decisiva per distruggere la reputazione delle relazioni pubbliche. Alcuni, molti giornalisti, ansiosi di denigrare la nostra disciplina perché non amano accettare che una elevata percentuale del loro lavoro dipende da contenuti e interpretazioni che ricevono da noi, non potevano trovare un boccone più succulento….
Ricevuto il messaggio, molte organizzazioni cambiarono il nome della funzione in comunicazione, e questo, a sua volta portò ad una interpretazione pubblica del nostro lavoro come ‘spin’, come ‘offuscamento dei fatti’, o come ‘barriera’ fra l’alto dirigente fonte e il giornalista che fa il suo lavoro.
Questo ha prodotto un effetto negativo sulla professione, sempre più vissuta nella sua dimensione comunicativa (informazione ai media e/o direttamente ai pubblici influenti) piuttosto che relazionale, minando in tal modo il valore strategico che la nostra disciplina riesce a creare per le organizzazioni e per la società nel suo complesso.

Ti chiedo però di essere più specifico…
Bene.
Vedo quattro ruoli principali nella nostra attività, e osservo inoltre che il consulente di relazioni pubbliche viene ad assumervi una ruolo, per dirla in Italia, quasi rinascimentale:
a- il sensore: che anticipa e percepisce quei sommovimenti al cuore della società che possono influenzare il futuro dell’organizzazione;
b- la coscienza: che analizza le aspettative dei pubblici e assicura che i comportamenti sociali ed etici dell’organizzazione siano conseguenti;
c- il comunicatore – che opera all’interno come all’esterno dell’organizzazione, poiché si tratta di variabili interdipendenti. Nessuno di noi dovrebbe potere immaginare di comunicare all’esterno una politica che non sia già ben radicata all’interno. Il dirigente delle relazioni pubbliche deve saper dimostrare ai pubblici che l’organizzazione è responsabile; che assume decisioni che vanno ben oltre la semplice enunciazione delle politiche; e che progressi vengano effettivamente compiuti verso la soddisfazione delle aspettative di quei pubblici;
d- il monitor- che mantiene sotto continua osservazione le politiche e i programmi dell’organizzazione insieme alle reazioni dei pubblici alla loro attuazione.

Diversi studiosi e alcune associazioni professionali sono consapevoli che il modello americano delle relazioni pubbliche che ha finora largamente prevalso sui mercati mondiali, pur con i suoi benefici, ha anche prodotto effetti collaterali meno positivi. Preoccupati per la crescente ‘critica sociale’ e la caduta della reputazione della nostra disciplina, hanno avviato una seria elaborazione di un diverso modello diverso fondato sulla ‘comunicazione con’ (rispetto alla consolidata comunicazione a’), sul dialogo, l’interazione e il riconoscimento della diversità e delle specifiche situazioni culturali, politiche ed economiche di ciascun Paese. Il tuo punto di vista?
Alcuni principi fondamentali -come il rispetto della verità, l’integrità nelle relazioni con i media, con il processo decisionale pubblico e con gli altri stakeholder- si devono sempre applicare a livello globale, ma le specificità nazionali devono essere tenute in grandissimo conto, e sono ovviamente favorevole a tutti gli sforzi per integrare queste ultime nei primi. La mia impressione però è che i miei colleghi di oltre oceano ritengano i professionisti americani più pragmatici, più orientati al ‘profitto’. Noi invece ci vediamo –sì- come sostenitori dei nostri clienti, ma anche come rappresentanti dell’interesse pubblico. I miei colleghi europei credono che la loro missione sia più nel servire l’interesse pubblico che non i clienti- e in questo concedo che c’è una differenza. Io invece credo possibile e corretto l’equilibrio fra i due interessi.

Una recente discussione a Londra sui rapporti fra le relazioni pubbliche e la democrazia, organizzata dal CIPR, si è conclusa con un salomonico verdetto che versano entrambi in gravissime condizioni di salute. La tua opinione?

Dobbiamo accettare che la stabilità del mondo è oggi assai più fragile di quanto non sia stata dal secondo dopoguerra. Le democrazie sono continuamente minacciate da chi preferirebbe una guida autocratica. Dobbiamo essere consapevoli che le relazioni pubbliche sono una espressione della democrazia, come la libertà di espressione, di religione e di stampa e la loro stessa esistenza sono di per sé prova di democrazia: non esistevano nell’Europa dell’Est prima della caduta del muro, e oggi accompagnano la transizione della Cina verso la democrazia. Una cosa comunque deve essere chiara a tutti noi: nessun Paese, democratico o meno, riesce a convincerci con le parole ad essere rispettato. Le Nazioni, come le altre istituzioni della nostra società e come anche le persone, sono giudicate più da quello che fanno che non da quello che dicono.

Come hai accennato prima, la Burson Marsteller è stata la prima società a sostenere e dimostrare la razionalità di una integrazione fra relazioni pubbliche e pubblicità. Se ricordo bene, all’inizio avevi definito questa come ‘comunicazione totale’, altri l’hanno chiamata ‘orchestrazione’ o ‘comunicazione integrata di marketing’.
Come vedi il futuro di questa prospettiva?

Come dici tu, l’integrazione fra pubblicità e relazioni pubbliche a beneficio del cliente, è una vecchia storia. Prima che Bill Marsteller ed io, nel 1953, fondessimo le nostre aziende, tutte le grandi agenzie di pubblicità ci avevano provato ma, con l’eccezione della J. Walter Thompson, avevano rinunciato. Per loro quella ipotesi non era profittevole e temevano di mettere a rischio grandi budget pubblicitari qualora le relazioni pubbliche avessero mancato il risultato atteso.
Nel 1989 vendemmo BM alla Young & Rubicam, poi incorporata nella WPP, la maggiore conglomerata mondiale della comunicazione.
Già nei primi anni novanta, nove delle dieci maggiore agenzie di relazioni pubbliche erano passate in proprietà di una agenzia di pubblicità.

Mentre attività tattiche quali la publicity dei prodotti o la promozione o non potranno mai a sostituire la pubblicità, le relazioni pubbliche possono tuttavia rendere più credibili il marchio e la stessa pubblicità, raggiungendo il pubblico a livelli emotivi diversi. C’è una proliferazione di nuovi media e cerchiamo vie più efficaci per raggiungere i nostri pubblici.
La comunicazione faccia-a-faccia e il passa parola, insieme ad altre declinazioni derivanti da Internet, diventano sempre più importanti man mano che i prodotti e i servizi appaiono meno differenziati in un momento in cui, nella mente del consumatore, è proprio la differenziazione ad assumere la caratteristica principale per il successo.
E da questa prospettiva, anche le politiche di responsabilità sociale costituiscono un canale per ottenere questo risultato, tenendo conto dell’interesse pubblico.
Così come assume una crescente importanza, e non solo per le relazioni pubbliche, la questione della misurazione e la valutazione dei risultati. Il costo di questa misurazione è sempre stato un forte deterrente per noi relatori pubblici, ma può essere più facilmente superato combinando le due discipline.
In effetti, il nostro incontro con una grande impresa di comunicazione ha allargato la nostra gamma consentendo una visione più ampia del mix comunicativo. Più recentemente poi beneficiamo dal venire coinvolti in grandi e complessi progetti di comunicazione nei quali non saremmo stati altrimenti inclusi, e naturalmente, abbiamo ricevuto un grande valore dalla lezione di gestione finanziaria ricevuta dal fondatore della WPP, Martin Sorrell.

La nostra ‘disciplina’ ha sempre cercato il ‘sacro graal’ del come riuscire a rendere esplicito il proprio reale valore e convincere clienti e datori di lavoro a pagare il giusto.
C’è in vista da voi qualche importante passo avanti?

Fino alla metà degli anni sessanta i clienti venivano fatturati in base ad una quota fissa mensile che stimava il tempo previsto di servizio professionale erogato. Poi abbiamo iniziato ad emulare gli studi di avvocati fatturando a ora il tempo erogato. Questo però ha portato ad una banalizzazione della nostra offerta che ha assai poca, sempre che ne abbia, relazione col valore che produciamo. Per essere onesti, non abbiamo compiuto grandi progressi, ma è evidente che le nostre entrate debbano riflettere il valore creato per i clienti, e questo cambia in modo rilevante Paese per Paese. E’ un bel rompicapo e ci stiamo lavorando con impegno.

In ogni Paese migliaia di giovani studenti affollano corsi universitari di relazioni pubbliche e di comunicazione per studiare una ‘disciplina’ che la nostra generazione ha ‘imparato facendo’.
Quale è la tua visione sulla sostenibilità di questo fenomeno?

Ti do una risposta assai pratica. Negli Stati Uniti, la Burson Marsteller conduce il maggior progetto di inserimento di giovani del nostro settore. Ogni anno abbiamo almeno 50 studenti universitari che lavorano con noi e li selezioniamo con criteri assai meticolosi. Circa la metà provengono dagli studi di comunicazione e relazioni pubbliche, mentre l’altra metà dalle facoltà e dai corsi di laurea in arti liberali. Dopo i due primi mesi di apprendistato decidiamo a quali di loro offrire un lavoro stabile e quelli che accettano la nostra offerta sono ancora equamente suddivisifra le due provenienze.
Vedi, Toni, quello di cui abbiamo veramente bisogno è competenza specifica nei settori in cui operano i nostri clienti. Sempre di più, per soddisfare le esigenze dei nostri clienti, ci troviamo a convertire persone ‘competenti nei settori’ in specialisti di relazioni pubbliche. Quindi i curricula vanno modificati per includere quelle competenze.
Ma, mentre procede questa progressiva specializzazione, sentiamo anche un crescente bisogno di conoscenze più generali –più rinascimentali, per capirci.
La questione è assai difficile e soltanto una più stretta integrazione della nostra disciplina con l’università possiamo tentare di procedere con efficacia.
(fine)