Occupazione, obiettivo PA

Ogni giorno, nella pubblica amministrazione assistiamo a bandi con offerte di lavoro per attività che richiedono competenze proprie del comunicatore, ma riservate soltanto agli iscritti all’Ordine dei giornalisti. Una situazione diffusa che apre però a ricadute negative sull’occupazione e sulla qualità delle prestazioni. Il nodo centrale riguarda le pari opportunità di accesso alla PA, precisando che la questione non è una contrapposizione tra giornalisti e comunicatori, ma di ruolo, funzioni e competenze specifiche.

Con queste motivazioni Ferpi ha presentato un esposto all’Antitrust, accompagnata dall’Avv.Umberto Fantigrossi, esperto in materia e consulente di Ferpi.

Una battaglia per aprire il mercato della Pubblica Amministrazione ai professionisti della Comunicazione.

#e-Fattura: dal 1° gennaio diventa obbligatoria

La fattura elettronica diventa obbligatoria in Italia per tutte le transazioni nazionali (verso clienti, imprese e consumatori finali) dal 1° gennaio 2019. E’ previsto un impatto epocale sulle organizzazioni di ogni dimensione e sugli operatori con partita Iva in quanto il provvedimento normativo costituisce un importante passo verso una integrale digitalizzazione del ciclo attivo e passivo.

Dal 1° gennaio 2019 tutte le fatture emesse, a seguito di cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate tra soggetti residenti o stabiliti in Italia, potranno essere soltanto fatture elettroniche. L’obbligo di fattura elettronica, introdotto dalla Legge di Bilancio 2018, vale sia nel caso in cui la cessione del bene o la prestazione di servizio è effettuata tra due operatori Iva (operazioni B2B, cioè Business to Business), sia nel caso in cui la cessione/prestazione è effettuata da un operatore Iva verso un consumatore finale (operazioni B2C, cioè Business to Consumer). Le regole per predisporre, trasmettere, ricevere e conservare le fatture elettroniche sono definite nel provvedimento n. 89757 del 30 aprile 2018 pubblicato sul sito internet dell’Agenzia delle Entrate (www.agenziaentrate.it).

Approfondimenti:

Fattura elettronica e Garante della privacy

Vademecum per i professionisti

L’INPGI a caccia di comunicatori. Le preoccupazioni di FERPI

FERPI: la proposta INPGI racchiude elementi di attenzione e criticità che devono essere valutati con tavoli di confronto fra tutte le Associazioni che rappresentano i professionisti della comunicazione e delle relazioni pubbliche, pubblici e privati.

Milano, 30 novembre 2018 – FERPI, la Federazione Relazioni Pubbliche Italiana, rispetto all’ipotesi di far confluire in INPGI tutti gli operatori della comunicazione, impegnati nel pubblico e nel privato (oggi iscritti INPS), manifesta tutta la propria perplessità, invitando alla mobilitazione e al dibattito anche le altre sigle e Associazioni che in Italia rappresentano la comunità professionale dei comunicatori: un ambito valoriale per il Paese, dal punto di vista economico, ma soprattutto poiché racchiude la capacità di narrazione e diffusione di percezione e reputazione positiva.

 

Stupisce infatti che INPGI abbia stimolato un iter con le Istituzioni che al momento non hanno ritenuto utile aprire un tavolo di confronto con tutte le associazioni che rappresentano il mondo della Comunicazione: FERPI, la storica e autorevole Associazione che rappresenta professionisti di tutto il mercato della Comunicazione, chiede e auspica un confronto istituzionale con le rappresentanze di Governo per mettere a disposizione del legislatore il proprio patrimonio professionale, contribuendo a descrivere e comprendere, in modo corretto e veritiero, il mercato della Comunicazione

 

“Prescindendo da aspetti tecnici, economici e procedurali sull’incerta fattibilità e sostenibilità di questa proposta, non volendo anche valutare lo stato attuale dei bilanci INPGI  – sottolinea il Presidente di FERPI Pier Donato Vercellone– rimaniamo comunque perplessi e intendiamo impegnarci per stimolare una riflessione più profonda sul ruolo dei comunicatori, sullo status professionale, sulle caratteristiche distintive e sulla differenza, netta e precisa, sebbene dinamica e in evoluzione, con il ruolo dell’informazione e del giornalismo”.

 

“FERPI è una storica è unica associazione di rappresentanza, riconosciuta dalla legge 4/2013, che opera in Italia da 48 anni, ma crediamo sia necessario coinvolgere le altre Associazioni di categoria (Assorel, Assocom, Unicom, AII, EACD, etc), per esprimere una posizione comune ed elevare la rappresentatività del comparto” – ha aggiunto Vercellone.

 

FERPI crede dunque necessario iniziare a ragionare in un’ottica complessiva, quella di un “comparto della comunicazione”, in grado di raccogliere e normare tutte le figure professionali che in quest’ambito operano, dare a tutte – salvaguardandone peculiarità e specificità – organizzazione, regolamentazione, responsabilità e regole deontologiche ed etiche, per salvaguardare la differenza di scopo, valutando successivamente ipotesi future di condivisione di valore e sistemi di tutela comuni.

 

 

FERPI – Federazione Relazioni Pubbliche italianaè l’associazione che rappresenta i professionisti che operano nelle Relazioni Pubbliche e nella Comunicazione nel nostro Paese. L’Associazione, costituita nel 1970, opera per valorizzare la professione dei relatori pubblici e dei comunicatori, per rappresentare i propri iscritti e per garantire nei confronti di committenti ed imprese una tutela assicurata dai principi di etica e di autoregolamentazione dei comportamenti grazie ai Codici adottati. Dal 2014 Ferpi è inserita nell’elenco del Ministero dello Sviluppo Economico, riservato alle associazioni professionali che rilasciano attestato di qualità ai propri iscritti, secondo quanto previsto dalla L.4/2013. 

 

 

Ufficio Stampa Ferpi

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Obiettivo Cina

Le dinamiche dei mercati internazionali creano occasioni da non perdere. Essere al passo con questi cambiamenti significa cogliere opportunità sinora non sfruttate pienamente

Il programma “JEWELLERY EXPORT LAB” si configura come un percorso di supporto alle aziende del settore orafo/argentiero. Per la prima volta viene offerto un servizio “tailor made” per le aziende che intendono espandersi nel mercato cinese anche alla luce delle recenti interessanti novità conseguenti all’abbattimento dei dazi e all’organizzazione del China International Import Expo. 

La giornata formativa, che si svolgerà a Milano il 25 Ottobre 2018, eÌ€ rivolta esclusivamente agli imprenditori, export manager, responsabili commercialie chiunque sia qualificato a gestire la politica internazionale aziendale. 

Il programma, strutturato sulle esigenze delle aziende orafe, si articolerà in una giornata di training frontale, in cui verranno affrontate le principali tematiche relative all’internazionalizzazione sul mercato cinese, con un’attenzione anche alle nuove opportunità commerciali offerte dall’economia digitale. 

Programma didattico

La giornata formativa si svolgerà a Milano il 25 Ottobre 2018, presso  la Sede Federorafi in Via Alberto Riva Villasanta, 3.

Di seguito il programma dell’incontro:

10.00-10.30Dott. Antonino Laspina– Direttore Ufficio Coordinamento Marketing ICE Agenzia
– L’approccio trans-culturale negli incontri con gli operatori cinesi

10.30-13.00Rita Palumbo– Wip Consulting
– La cultura e il significato del gioiello in Cina;
– Il gioiello Made in Italy: chi sono i potenziali acquirenti di gioielli in Cina, cosa comprano, perché comprano, a che prezzo comprano;
– La percezione Made in Italy, come comunicare il valore del gioiello italiano;
– La strutturazione dei prezzi,
– Gli errori da evitare per conquistare il mercato cinese

13.00-14.00 Light buffet

14.00- 16.00:
 Mario Bagliani– Netcomm
– Esportare nell’era digitale: Il mercato dell’ecommerce del gioiello in Cina

16.00- 17.00:
 Paola Guida– ICE-Milano
– Testimonianza e conclusioni

Jewellery Export Lab 2 edizione 2018

Il racconto del lavoro che cambia

Rita Palumbo questa settimana, nella sua rubrica #MercatoLavoro pubblicata nel portale www.ferpi.it, ospita una riflessione di Luca Bizzarri, Direttore ufficio politiche giovanili della Provincia autonoma di Bolzano. Bizzarri ha partecipato  al gruppo di lavoro Ferpi “Comunicare le professioni intellettuali” al recente Festival delle Professioni di Trento. E da quel palcoscenico ha lanciato una sfida: le nuove  professioni hanno bisogno dei comunicatori per raccontare il cambiamento.

Il 4 ottobre, a Trento, si è svolta, con il patrocinio di Ferpi, la settima edizione del Festival delle Professioni, l’unico appuntamento italiano interamente dedicato al mondo dei professionisti. Il Gruppo Ferpi “Comunicare le professioni intellettuali”, forte dell’esperienza del percorso che ha portato la Federazione al riconoscimento tra le professioni non regolamentate, ha proposto un approfondimento dedicato al mondo del lavoro e a tutte le nuove professioni intellettuali che oggi nascono nel nome del cambiamento e della novità e che necessitano trovare, nella società, adeguati percorsi di legittimazione.

A Luca Bizzarri, Direttore Ufficio Politiche Giovanili della Provincia autonoma di Bolzano e co-direttore della collana New fabric (Pacini editore) abbiamo chiesto una riflessione di scenario e una valutazione dell’interessante percorso che ha visto individuare, tra le nuove professioni, alcuni tratti ricorrenti; una serie di “ricorrenze”, come le definisce, che dialogano fra di loro in maniera costante. Ai professionisti del mondo della comunicazione viene offerta l’opportunità e responsabilità di recepire questi aspetti e di raccontarli. “Perché è proprio attraverso la narrazione che si accredita nell’opinione pubblica l’idea che, qualora presenti, queste ricorrenze delimitano profili professionali che hanno il diritto a un riconoscimento”.

di Luca Bizzarri

Uno degli aspetti, certamente non secondari, rispetto al profondo mutamento del mercato del lavoro, cui abbiamo assistito in questo decennio e rispetto a una reazione di coraggio alla drammatica situazione di disoccupazione giovanile che ha colpito il Paese, riguarda la nascita di nuovi profili professionali, inaspettati e molte volte non riconosciuti a livello sociale.

L’antagonismo generazionale – che tradizionalmente contraddistingue il mondo del lavoro – è esploso in una galassia di professioni dai contorni sempre più indefiniti e dalle operatività più disparate. Risultato, quest’ultimo, dettato oltretutto dalla pervasività delle nuove tecnologie che hanno disintermediato l’approccio classico alla produzione industriale e desertificato gran parte dei luoghi di produzione costruiti negli anni Sessanta e Settanta ai margini delle città.

Da questo “Zabriskie Point” qualcosa si è mosso e continua a muoversi. Alla crisi si è risposto con la collaborazione e con attività mirate a rigenerare spazi e situazioni rimaste per molto tempo vittime di gestioni tradizionali, che hanno funzionato fintanto che le condizioni sociali e economiche reggevano.

La pubblica amministrazione non sempre ha reagito con prontezza al malcontento promuovendo nuovi modelli gestionali partecipativi e sostenibili e ha lasciato lo spazio a soluzioni creative che hanno generato nel tempo nuovi profili professionali. Tra queste troviamo professioni, anche tradizionali, che hanno dovuto reinventarsi per sopravvivere: penso alla grande quantità di architetti o di designer che si sono prestati con successo in questi ultimi anni alla realizzazione di progetti di rigenerazione urbana, dove accanto alle competenze formali proprie di interventi strutturali sui luoghi hanno sviluppato competenze di altro genere volte alla creazione e alla gestione di comunità attive. O ancora alle fondamentali figure dei community manager che oggi in Italia gestiscono i nuovi spazi del lavoro collaborativo (coworking) e che hanno dovuto fare sintesi nel loro mestieri di competenze anche molto distanti fra di loro che vanno dall’organizzazione delle comunità dei coworker alla capacità di individuare finanziamenti per la sostenibilità dell’impresa, dalle occasioni di scambio fra i professionisti al dialogo con le istituzioni. Oppure pensiamo alla categoria degli imprenditori culturali e creativi, che ancora oggi si battono per un riconoscimento di settore che li emancipi finalmente dall’idea che la cultura si fa solo a costo zero e che li doti di strumenti normativi, di azione e di tutela, per fare della cultura un’impresa di sviluppo del territorio che sia tale a pieno titolo.

Di questo e di tanto altro abbiamo cercato di dare conto in una felice pubblicazione uscita nel 2017 per la Pacini editore dal titolo “Leggere la rigenerazione urbana” che raccoglie storie di persone che facendo hanno trasformato il contesto di riferimento della propria comunità. Perché è solo attraverso il racconto che le nuove prospettive prendono forma. L’aver promosso un bando per la pubblicazione prima e aver successivamente portato in giro per l’Italia questi racconti ci ha permesso di incontrare molte realtà e individuare delle “ricorrenze” ovvero degli aspetti professionali, tradizionalmente non riconosciuti, che continuamente emergono nei diversi contesti e che non hanno alcuna pretesa di definire o di creare categorie ordinistiche. Abbiamo preferito un approccio alle pratiche in senso stretto, piuttosto che alle competenze, perché siamo convinti che solo così possono essere scoperte e individuate le nuove direzioni emergenti e solo attraverso il racconto con il tempo queste visioni possono essere accreditate e riconosciute.

E allora entriamo nel dettaglio di queste “ricorrenze”:

  • il progetto di vita spesso coincide con il progetto professionale. Si tratta di professioni che spesso si definiscono partendo da visioni sulla propria vita o del rapporto che si vorrebbe instaurare con il contesto di riferimento. Pensiamo alle molte esperienze di cohousing che si registrano in Italia, alla necessità di organizzare delle comunità che per quanto amicali, hanno bisogno di una gestione puntuale delle convivenza e dei momenti di comunità;
  • l’interesse per il locale. Anche in questo caso prevale il lavoro sulle piccole dimensioni, sulla riattivazione dei piccoli borghi o delle comunità periferiche rispetto ai grandi centri urbani. L’interesse per la dimensione ”iperlocale” come direbbe Ezio Manzini;
  • la coincidenza dell’interesse individuale con l’interesse generale. I nuovi profili professionali rispondono generalmente a bisogni comunitari o che comunque riguardano un gruppo ampio di persone. Il proprio interesse individuale ha una visione ampia e pone grande attenzione all’impatto sociale delle proprie azioni;
  • il rapporto con la pubblica amministrazione. Sono profili altamente specializzati che dialogano efficacemente con diversi livelli della società e fra questi con gli enti pubblici ma non si pongono in contrasto con questi, anzi hanno grande capacità di messa in rete degli interessi di tutti. Ecco perché molto spesso si parla di ecosistema, intendendo con questo la messa in dialogo di tutte le parti della società. In questo senso molto ha fatto l’adozione in molti comuni italiani dei patti di collaborazione regolati da Regolamenti sulla collaborazione fra cittadini per la cura e la rigenerazione dei beni comuni.

Evidentemente questi aspetti dialogano fra di loro in maniera costante e necessitano di persone che siano capaci di raccontare il fenomeno cui stiamo assistendo. Ecco perché le professioni che fanno del racconto e della comunicazione il loro obiettivo principale hanno il dovere di recepire questi aspetti ricorrenti e di raccontarli. Perché è proprio attraverso la narrazione che si accredita nell’opinione pubblica l’idea che, qualora presenti, queste ricorrenze delimitano profili professionali che hanno il diritto a un riconoscimento da parte di quei sistemi istituzionali che tradizionalmente sono assunti come legittimanti.

www.ferpi.it

Daniele Chieffi: l’Ordine (dei giornalisti) è morto…

di Daniele Chieffi

Un social media manager che gestisce la diffusione degli articoli di un quotidiano online è un giornalista o no? Un brand journalist, che usa tecniche appunto giornalistiche per la comunicazione corporate è un giornalista o no? E un addetto stampa deve essere un giornalista o meno? Non esiste una singola risposta, non esiste la possibilità di un sì o no, netti e indiscutibili, semplicemente perché la domanda è mal posta e nasce da una confusione, forse voluta, forse no, fra due piani diversi: il ruolo e le peculiarità della professione giornalistica da un lato, la sua regolamentazione e organizzazione normativa e previdenziale dall’altro. Un discorso che va oltre il dibattito sull’abolizione o meno dell’Ordine dei Giornalisti.

Questo s‘intreccia con i destini di decine di nuove figure professionali “digitali” – di cui il social media manager e il brand journalist sono solo due esempi -. È forse arrivato il momento di accettare che il mondo è cambiato da quel lontano 1948 (legge sulla stampa) come da quel 1963 (legge sulla professione giornalistica) ma anche dal 2000 (legge 150 sulle attività di comunicazione della PA) e finanche dal 2013 (legge 4 sulle professioni non riconosciute). È necessario considerare il mondo della comunicazione per quel che è: un ecosistema complessivo del quale siamo tutti abitanti: media, comunicatori, giornalisti, pubblicitari, community manager, addetti stampa, ecc. Tutti profondamente interdipendenti quanto portatori ciascuno di peculiarità e singolarità profonde, ma uniti da unico comun denominatore: comunichiamo, produciamo informazione, sia pure con scopi diversi.

Pensare di risolvere questo problema – come da alcune parti si sente dire – gonfiando la definizione di “giornalista”, trasformandola in una categoria “ombrello” omnicomprensiva, è deleterio innanzitutto proprio per la professione giornalistica stessa, perché finirebbe per minarne definitivamente l’identità e il ruolo. Dall’altra parte costringerebbe altre figure professionali in un ruolo che definire contraddittorio è poco: è possibile immaginare un comunicatore o un digital strategist obbligati a prendere il tesserino dell’Ordine oppure a versare i contributi all’Istituto Nazionale di Previdenza dei Giornalisti?

È necessario viceversa iniziare a ragionare in un’ottica complessiva, quella di un “comparto della comunicazione”, in grado di raccogliere e normare tutte le figure professionali che in quest’ambito operano, dare a tutte – salvaguardandone peculiarità e specificità – organizzazione, regolamentazione, tutele e regole deontologiche ed etiche, un sistema previdenziale comune. Questo permetterebbe, infine, di creare un sistema solido e articolato di garanzia e tutela per chi la comunicazione la fruisce, che siano lettori, utenti o clienti. Un sistema unico, costruito però su un assunto preciso: salvaguardare la differenza di scopo.

Non è un giornalista, infatti, chi produce informazione, indipendentemente dal fatto che lo faccia in maniera disintermediata o intermediata. Quindi non è un giornalista il social media manager, non è un giornalista l’addetto stampa, non è un giornalista il copy di un’agenzia pubblicitaria e via elencando. Non sono giornalisti semplicemente perché non svolgono un’attività che si possa ricondurre all’articolo 21 della Costituzione, al diritto-dovere d’informare, in maniera indipendente, per creare una coscienza critica nella popolazione e svolgere quel ruolo di garanzia della legalità e del buon esercizio del Potere.

È proprio la differenza di scopo la chiave di tutto: il giornalista svolge un’attività garantita dalla Costituzione, quindi d’interesse pubblico; chiunque altro faccia qualsiasi altra forma di comunicazione e informazione lo fa per sostenere e veicolare interessi particolari e “privati”. Il problema nasce evidentemente, come dicevamo prima, quando si inizia a parlare del fatto che chi svolga altre attività – il dibattito si è concentrato su chi svolge attività di comunicazione nelle aziende o nella Pubblica Amministrazione – debba essere ricondotto entro il sistema normativo giornalistico: iscrizione all’Ordine, adesione all’Inpgi, alla Casagit, ecc.

La contraddizione è evidente: strumenti normativi nati e pensati per la professione giornalistica applicati a quanti questa professione, nel senso spiegato sopra, non la svolgono. Ma perché propendere per questa soluzione che appare evidentemente illogica? Non è un ragionamento legato al cambiamento degli scenari della comunicazione, si tratta meramente di soldi. Il sistema dei media è in crisi da anni: i giornalisti regolarmente assunti che quindi versano i contributi sono sempre meno, mentre i pensionati sempre di più, Questo sta aprendo una voragine nei conti dell’Inpgi. La soluzione di cui si inizia a discutere piuttosto insistentemente? Imbarchiamo i comunicatori d’azienda, trasformiamoli obbligatoriamente in giornalisti, così saniamo i conti.

La soluzione deve essere diversa, e deve passare da un ripensamento complessivo di tutto il comparto della comunicazione, anche e soprattutto alla luce dei cambiamenti portati dal digitale. Ha senso quindi parlare di un “comparto della comunicazione”, per dirla con linguaggio sindacale? Sì, ha grande senso. Siamo in un ecosistema, dicevamo. La disintermediazione che la rivoluzione digitale ha comportato, e che di questo ecosistema è il segno identitario, comporta un profondo ampliamento di problemi etici e deontologici e della necessità di garantire al pubblico, a tutti noi, che l’informazione prodotta in questo ecosistema sia corretta, realizzata secondo criteri professionali precisi, prestabiliti e che chi non li segua venga sanzionato. I giornalisti questo sistema di garanzia lo hanno, si chiama Ordine. Anche i comunicatori e si chiama Ferpi.

Ha senso quindi pensare di mappare tutte le professioni della comunicazione, identificare le loro peculiarità tecniche e poi promuovere per ciascuna una forma associativa che ne tuteli gli interessi e, contemporaneamente, ne garantisca l’etica e la deontologia, ne certifichi la professionalità, come forma di tutela verso il pubblico e, perché no, anche verso i clienti? Sì, ha molto senso. 

Parliamo quindi di immaginare un unico “comparto della comunicazione”, all’interno del quale ogni singola famiglia professionale abbia una forma associativa in grado di tutelarne gli interessi, regolamentarne l’accesso e la pratica e di certificarne la professionalità presso gli stakeholders.

In questo contesto non ci sarebbe nulla di illogico o sbagliato nell’immaginare una regolamentazione previdenziale unica per tutti gli operatori della comunicazione: un’unica Cassa che certo non si potrebbe più chiamare “Istituto Nazionale di Previdenza dei giornalisti”.

Riconoscimento e tutela delle nuove professioni, un sistema previdenziale solido e garanzie per gli utenti, lettori, clienti. È una soluzione che chiede però importanti interventi legislativi. Innanzitutto una mappatura precisa di quali siano le professioni della comunicazione, soprattutto di quelle nuove, native digitali – un tavolo, in questo senso, è già stato aperto -. Definirne le caratteristiche, le esigenze e le regolamentazioni di cui necessitano per garantire i destinatari finali della propria attività. Da qui la definizione normativa di un comparto professionale della comunicazione, entro cui dare finalmente soluzione a una serie importante di problemi aperti: la sostenibilità del sistema previdenziale dei giornalisti, il riconoscimento e la regolamentazione delle nuove figure professionali digitali e una tutela ampia e articolata degli utenti, dei lettori, dei clienti. In breve, di tutti noi.

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Bandi, gare pubbliche e fondi europei: i liberi professionisti come le pmi

Prima l’equiparazione dei liberi professionisti alle PMI, oggi la possibilità di accedere ai fondi europei. Grazie alla Legge 208/2015, la cosiddetta Legge di Stabilità, i professionisti, così come le piccole e medie imprese, possono accedere ai fondi strutturali europei, ossia quegli strumenti per la politica di coesione dell’Unione Europea, pensati per  favorire la crescita economica e occupazionale degli stati membri, stanziati per il periodo 2014/2020.

In particolare, la Legge di Stabilità ha introdotto, anche per coloro che svolgono la libera professione, la possibilità di accesso ai fondi FESR (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale) e FSE (Fondo Sociale Europeo) nonché ai Piani operativi PON (Programma Operativo Nazionale) e POR (Piano Operativo Regionale).

In base alla Regione di appartenenza, inoltre, sono previsti specifici bandi per esempio per l’accesso al microcredito (anche se nel 2018 cambieranno le norme e le percentuali a garanzia del credito concesso) o il  finanziamento per le nuove attività.

Prima di questa norma i professionisti potevano partecipare a gare ed appalti solo attraverso un contratto con un’impresa, che una volta aggiudicata una gara, aveva facoltà di coinvolgere professionisti specializzati per la realizzazione di parti del progetto.

Oggi invece per i lavoratori autonomi è possibile partecipare sia singolarmente sia con formule di aggregazione temporanea con altri professionisti, ovvero in rete con le imprese oppure in consorzi, così come regolato dalla norma contenuta nell’articolo 12 legge 81/2017, il cosiddetto Jobs Act, che consente la partecipazione dei lavoratori autonomi agli appalti pubblici stabilendone le regole.

La norma è in vigore dal 14 giugno 2017, ma non ancora molto pubblicizzata. Le Pubbliche Amministrazioni, infine, sono tenute a favorire l’accesso alle informazioni sulle gare pubbliche dei lavoratori autonomi e dei professionisti e la loro partecipazione alle procedure di aggiudicazione.

www.ferpi.it

Il mercato delle PR, tra necessità e buoni propositi

Agli inizi di gennaio non si può prescindere dal fare il bilancio degli ultimi 12 mesi appena trascorsi. Per la nostra professione il 2016 è stato un altro anno di profondi cambiamenti. E non solo per le costanti e meravigliose innovazioni tecnologiche che siano chiamati a capire e a gestire.

La sfida che siamo costretti ad affrontare riguarda l’etica e il rigore professionale, ma anche – se non soprattutto – la rivalutazione del valore generato dal nostro lavoro. Si tratta di una vera e propria scommessa: trasformare l’impatto economico (negativo) che l’ultimo decennio ha generato, in un nuovo modello di affermazione e rilancio della nostra professione.

Alcuni dati. Tra il 2011 e il 2015 le imprese attive del settore della comunicazione in Italia – tra liberi professionisti, ditte individuali e società di capitali – sono state mediamente 27,5 mila: 27.884 nel 2011, 27.872 nel 2012, 27.538 nel 2013, 27.174 nel 2014, 27.516 nel 2015.  In quel quinquennio sono scomparsi dal mercato, definitivamente, 3.044 operatori della comunicazione, registrando una media di “morte” d’impresa di 609 aziende all’anno, 61 cessazioni irreversibili al mese.  Di quei 27,5 mila attori della comunicazione, Il 57% è rappresentato da professionisti, che hanno resistito alla crisi pagando un caro prezzo, imparando a convivere con la precarietà e saltuarietà degli incarichi, accettando il deprezzamento della prestazione d’opera, la svalutazione del valore economico di una professione che costa fatica e che necessita di competenze e di formazione continua.

Una professione che, nonostante tutto, è centrale per l’economia del nostro Paese.

Da una ricerca di ottobre 2016, presentata da Confcommercio Professioni in occasione della pubblicazione del “Manifesto per la competitività dei professionisti nell’economia dei servizi” emergono dati significativi:

  • in Italia 1/4 degli occupati complessivi sono lavoratori autonomi; il doppio rispetto a Francia e Germania.
  • crescono i professionisti, soprattutto i non ordinistici (+48,8% in 5 anni), in controtendenza rispetto al calo delle altre componenti occupazionali.
  • il 99% dei professionisti non ordinistici lavorano nei servizi.
  • i professionisti dei servizi di informazione e comunicazione hanno un reddito pro capite medio di oltre 20mila euro.

La chiave di volta per la ripresa nazionale è quindi il terziario avanzato, servizi ad alto contenuto tecnologico che vedono in prima linea le professioni.

Professioni che in Europa già sono considerate giuridicamente alla stregua di un’impresa che produce lavoro e valore per il Paese.

Ferpi già vanta l’iscrizione nell’Albo Professioni non organizzate in ordini o collegi – legge n.4/2013 – grazie al suo statuto e al rispetto delle regole di aggiornamento professionale. Ma vogliamo e dobbiamo fare di più, per essere attenti a ciò che accade a livello normativo, fiscale e contrattuale, per analizzare le dinamiche del mercato, per “combattere” una vera e propria rivoluzione culturale, che vada al di là della crisi economica.

In questa rubrica si affronteranno le questioni più attuali del mercato della comunicazione da un’angolazione economica e si ospiteranno contributi di soci e colleghi. Con un unico obiettivo: confrontarci e individuare gli strumenti istituzionali, culturali e normativi utili allo sviluppo del nostro settore.

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Competenze: le top skill 2018 secondo LinkedIn

Le qualità più importanti per un professionista, sotto il profilo pratico, sono quelle legate al Cloud e al Calcolo Distribuito, come anche al Software middleware e di integrazione e all’Analisi Statistica e dei Data Mining, mentre le più importanti qualità professionali trasversali sono risultate essere la leadership, la comunicazione, la collaborazione e il time management.

A dirlo LinkedIn, il più grande social network professionale al mondo, presentando i risultati della ricerca Top Skill 2018, l’annuale studio relativo alle competenze più richieste dalle aziende a livello globale. Come ogni anno, l’analisi ha indagato i due principali filoni che identificano le Hard skill e le Soft Skill più importanti per i professionisti. Così, da una parte abbiamo quelle competenze più tecniche e che spesso fanno riferimento all’emisfero sinistro del nostro cervello, ovvero la parte specializzata nei processi analitici, logici e razionali, mentre, dall’altra, troviamo le capacità governate principalmente dall’emisfero destro più dedito allo sviluppo e alla gestione del nostro lato creativo e adattivo che caratterizza il nostro modo di adeguarci alle situazioni e di interagire con gli altri.

I risultati, se da una parte sottolineano come il comparto tecnologico rimanga essenziale per le hard skill, dall’altra mettono in risalto una costante crescita della necessità per i professionisti di imparare a gestire in maniera migliore il proprio tempo, al fine di poter raggiungere quell’equilibrio tra lavoro e vita privata di cui tanto si parla. Con l’avvento della tecnologia e la possibilità di abilitare politiche di smart working, infatti, le aziende cercano sempre di più lavoratori consapevoli delle loro possibilità e in grado di gestire in maniera efficiente il proprio lavoro. Questo però comporta anche che i professionisti abbiano una buona capacità comunicativa e collaborativa, al fine di poter creare un ambiente lavorativo più disteso, stimolante e produttivo.

“Oggi le aziende cercano talenti che sappiano unire nella maniera giusta le proprie competenze tecniche con le proprie qualità sociali e personali” ha spiegato Marcello Albergoni, Head of Italy di LinkedIn. “Grazie a un network di oltre 562 milioni di utenti a livello globale, di cui oltre 11 milioni solo in Italia, le imprese di qualunque dimensione hanno davvero la possibilità di fare questo, capendo anche quali siano i reali interessi dei candidati e selezionando i talenti migliori non solo in base al loro curriculum, ma anche scoprendo quali siano le loro attitudini, i loro modi di interagire con gli altri, chi conoscono e quali sono le loro aspettative. Tutte informazioni estremamente utili per selezionare le persone giuste nel momento giusto”.

In questo contesto, quindi, dai dati emersi dalla ricerca si è potuto notare come le qualità più importanti per un professionista, sotto il profilo pratico siano quelle legate al Cloud e al Calcolo Distribuito, come anche al Software middleware e di integrazione e all’Analisi Statistica e dei Data Mining, mentre le più importanti qualità professionali trasversali sono risultate essere la leadership, la comunicazione, la collaborazione e il time management.

In Italia la ricerca poi, si è concentrata su tre settori particolarmente interessanti e in crescita nel nostro paese, ovvero il settore bancario, quello dell’automotive e quello legale. In questi ambiti apparentemente così distanti tra loro si può riscontrare un elemento in comune ovvero un aumento della richiesta da parte delle aziende di trovare professionisti con capacità analitiche. Nel mercato automobilistico, infatti, questa qualità è al terzo posto tra le skill più richieste, mentre si attesta addirittura al primo nel comparto bancario e in quello legale, sottolineando l’importanza di sapere analizzare e interpretare le situazioni e i dati, che sempre di più oggi sono alla base del business di qualunque settore.

“L’analisi dei dati è oggi un fattore imprescindibile per il successo di un’impresa” ha aggiunto Albergoni. “Avere la capacità di interpretare e gestire la mole di informazioni necessarie allo sviluppo del business moderno diventa così un vero e proprio elemento distintivo per tutti quei talenti che cercano nuove opportunità e che puntano al futuro di un mondo del lavoro in continua evoluzione”.

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Il valore economico delle Pubbliche Relazioni

Al 25esimo Simposio di Bledsulle Relazioni Pubbliche, che si è svolto sul lago di Bled (Jugoslavia) tra il 5 e il 7 luglio 2018, sono stati presentati i dati di una ricerca su tre Paesi campioni –  USA, UK e Italia – per stimare l’impatto economico delle Relazioni Pubbliche.

I dati della ricerca sono sintetizzati in un paper dal titolo HOW BIG IS PUBLIC RELATIONS

 

In sintesi: il mercato delle Pubbliche Relazioni nel mondo vale dai 300 ai 600 miliardi di dollari ed occupa da 3 a 6 milioni di persone. In Italia si parla di 100.000 persone e di 25 mld di dollari anno di impatto economico.

La ricerca presentata nel 2018 è l’aggiornamento della prima edizione scritta nel 2005, allora pubblicata da IPR, Istitute for Public Relatons. 

 

La fotografia Italia: 

Nel 2002 il governo italiano ha eseguito un censimento ufficiale e ha deciso che c’erano 42.000 professionisti delle pubbliche relazioni nel settore pubblico. 

FERPI, la Federazione delle relazioni pubbliche italiane, ha utilizzato questo numero e ha stimato che c’erano 60.000 in totale, compresi i settori privato, sociale e di consulenza. Da allora il numero è notevolmente cresciuto. Nel 2010 la stima Ferpi è salita a 80.000 e oggi è più probabile che siano 100.000. Il salario annuo lordo medio oggi si aggira intorno a $ 80.000 e se lo si moltiplica per il numero magico di 3 si arriva a $ 24 miliardi, che facilmente diventano $ 25 miliardi con costi aggiuntivi.

Per quanto queste stime siano molto approssimative e non riescano a cogliere l’effettiva portata della professione in questi tre paesi, si può certamente dire che adottando i criteri indicati, l’impatto complessivo delle pubbliche relazioni nei tre paesi è significativamente maggiore e più impressionante rispetto alle stime tradizionali e generalmente accettate che applicano l’approccio ad alta intensità di capitale”.

…..”In molti paesi del mondo (Germania, Italia, Brasile, Nigeria, Spagna, Portogallo ..) 
il settore pubblico rappresenta da solo oltre il 50% del numero di operatori stimati di pubbliche relazioni attivi …”

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