Giornalisti e comunicatori, necessario lavorare insieme per definire le nuove professioni

di Rita Palumbo

Gli incontri pubblici degli Stati Generali dell’Informazione e dell’Editoria si sono conclusi tra grandi assenti, rivendicazioni, speranze e la dichiarata amarezza del Sottosegretario Vittorio Crimi, per l’occasione mancata di un confronto costruttivo con i vertici degli enti di governo dei giornalisti.

Ciò nonostante è stata un’occasione più che interessante per ascoltare le tante anime del giornalismo, che – anche se con visioni opposte – hanno confermato una preoccupante realtà: la crisi del settore editoriale in ritardo di dieci anni nel rispondere adeguatamente alle conseguenze imposto dal web e della digitalizzazione.

Il giornalismo è morto? Nient’affatto. Il giornalismo con i vecchi modelli di business editoriali è in crisi? Non ci sono dubbi. Il merito di Crimi, al di là delle polemiche e delle interpretazioni, è quello di aver aperto il dibattito sul mercato dell’informazione e della produzione dei contenuti, di aver consentito un confronto tra profili professionali che hanno diversi obiettivi di scopo rispetto a quelli del giornalista, ma che spesso si trovano insieme a gestire canali e contenuti.

Il futuro prossimo venturo è tutto da scrivere. Ed è per questo che FERPI – sia il 4 giugno quando ha partecipato al dibattito sulle nuove professioni della comunicazione, sia nell’ultimo incontro del 4 luglio – ha ribadito la propria proposta: istituire fin da subito un tavolo permanente tra governo, giornalisti, comunicatori e stakeholder economici per trovare soluzioni che garantiscano la valorizzazione economica e la dignità previdenziale di entrambe le categorie.

Un tema molto sofferto, che divide i giornalisti per posizioni contrastanti, riguarda INPGI, l’istituto di previdenza della categoria in default. Anche se l’emendamento del governo ha spostato di qualche mese l’ipotesi della “deportazione contributiva” dei comunicatori in INPGI, FERPI ha ribadito il suo no, delegando sempre a quel tavolo di lavoro permanente il compito di individuare e gestire in modo adeguato le dinamiche economiche e legislative del mercato del lavoro dell’informazione, dell’editoria e della comunicazione per:

1. Cancellare ogni infondata e immotivata contrapposizione tra giornalisti e comunicatori
2. Valorizzare le differenti competenze e gestire le evoluzioni imposte dalla digitalizzazione nel rispetto degli obblighi deontologici.
3. Costruire norme contrattuali a sostegno e a difesa delle diverse professionalità che garantiscano le pensioni di tutti gli operatori dell’informazione e della comunicazione attraverso la costituzione di una Gestione INPS dedicata.

Norma-ponte salva INPGI

L’emendamento al decreto Crescita, dopo tanti tentativi andati a vuoto, ha avuto oggi il via libera delle Commissioni Finanze e Bilancio della Camera in una formulazione diversa rispetto a quelle finora circolate. Come riporta Ansa “l’emendamento al decreto Crescita, ulteriormente riformulato, consente tra l’altro di sospendere il commissariamento dell’ente fino alla fine dell’anno. L’Inpgi avrà 12 mesi di tempo dall’entrata in vigore della legge di conversione del decreto per varare una riforma del proprio regime previdenziale volto all’equilibrio finanziario della Gestione sostitutiva dell’assicurazione generale obbligatoria che intervengano in via prioritaria sul contenimento della spesa e, in subordine, sull’incremento delle entrate contributive”.

Per almeno 18 mesi, dunque, non si parlerà di “deportazione forzata” dall’INPS dei comunicatori per allargare la platea dei contribuenti e riequilibrare il disavanzo previdenziale della cassa privata dei giornalisti, perché i vertici INPGI saranno impegnati a varare una riforma del proprio regime previdenziale.

Scampato pericolo, quindi, di commissariamento per INPGI. Pericolo non scampato per i comunicatori, perché se il bilancio attuariale – che dovrà essere appunto redatto entro i 18 mesi – non dimostrerà una “sostenibilità economica e finanziaria di medio e lungo periodo”, il governo adotterà “uno o più regolamenti diretti a disciplinare le modalità di ampliamento della platea contributiva dell’INPGI”. E la storia ricomincerà.

Abbiamo quindi 18 mesi per lavorare alla costituzione un Tavolo condiviso con il governo e tutti i soggetti del mercato del lavoro della comunicazione e dell’informazione per evitare scelte nefaste per tutti, giornalisti e comunicatori.

www.ferpi.it

Politica, istituzioni e nuove professioni: il ruolo dei Comunicatori

L’incontro che si è tenuto ieri, 4 giugno a Roma nell’ambito degli Stati Generali dell’Editoria, ha segnato una svolta nel dibattito sulle nuove professioni della comunicazione. Le associazioni di categoria coinvolte, a confronto per la prima volta in una sede istituzionale, sono state d’accordo nel ritenere urgente che Istituzioni e Politica istituiscano un tavolo di lavoro con tutte le categorie professionali che rappresentano il complesso (e in continua evoluzione) mercato della produzione dei contenuti. Al di là dei canali utilizzati, digital e non.  Al di là degli obiettivi di scopo dei vari profili professionali.

In questo contesto di franco confronto e di proposte costruttive, non poteva essere trascurato il tema del “salvataggio“ dell’Istituto di Previdenza dei Giornalisti – INPGI – con un’azione legislativa sull’obbligatorietà contributiva dei comunicatori. Tutte le associazioni presenti al tavolo dei relatori  – FERPI, UNA, PA Social, Assoblogger, FPA, Associazione fotografi professionisti Tau virtual – così come gli interventi dal pubblico, hanno ribadito un no deciso a qualsiasi tentativo legislativo miope.  La “deportazione contributiva” dei comunicatori in INPGI sarebbe un danno anche per l’INPS, aprirebbe aree di crisi nel sistema dei CCNL, renderebbe ancor più precario il futuro previdenziale anche dei giornalisti. 

Purtroppo l’emendamento “salva INPGI” è ancora di attualità nonostante la netta posizione contraria delle associazioni della Comunicazione. Ma non solo: su un salvataggio tour court, non sono d’accordo nemmeno quei giornalisti che continuano a sottolineare l’urgenza di contestualizzare in modo corretto il sistema previdenziale della loro categoria, in un mercato che sta evolvendo velocemente e che impone nuovi modelli di produzione editoriale. 

L’unica soluzione per affrontare e gestire in modo adeguato le dinamiche economiche e legislative del mercato del lavoro dell’informazione, dell’editoria e della comunicazione è avviare un tavolo di confronto urgente tra governo, giornalisti, comunicatori, professionisti del digital, associazioni di categoria, sindacati e soggetti di riferimento dei Contratti Collettivi Nazionali di lavoro, che attualmente proteggono migliaia di lavoratori per:

  1. Bloccare qualsiasi tentativo legislativo calato dall’alto che, con una visione miope e di brevissimo periodo, inciderebbe in modo disastroso su decine di migliaia di lavoratori e di famiglie dell’informazione e della comunicazione.
  2. Cancellare ogni infondata e immotivata contrapposizione tra giornalisti e comunicatori, professionisti che operano negli stessi mercati ma con professionalità specifiche diverse e diversi obiettivi di scopo. 
  3. Valorizzare le differenti competenze per rafforzare tutte le professioni e gestire le evoluzioni imposte dalla digitalizzazione nel rispetto degli obblighi deontologici.
  4. Costruire norme contrattuali a sostegno e a difesa delle diverse professionalità che garantiscano le pensioni di tutti gli operatori dell’informazione e della comunicazione attraverso la costituzione di una Gestione INPS dedicata.

 

Rita Palumbo

Segretario Generale Ferpi, Coordinatore Settore Comunicazione Asseprim Confcommercio Imprese per l’Italia 

 

FerpiFutura

Manager Italia

www.francoabruzzo.it

Prima Comunicazione

 

MarCom: crescono i compensi

Crescono quasi dell’1% gli stipendi degli impiegati nella funzione marketing e comunicazione mentre i Quadri registrano un trend lievemente negativo (-0,2%). Pesano esperienza e dimensione dell’azienda, ma è l’età a determinare scostamenti anche del 39%.

Sono queste le domande alle quali dà una risposta la Guida alle retribuzioni dei professionisti nell’ambito marketing e comunicazione realizzata da Spring in collaborazione con Job Pricing che analizza ben 400.000 casi in Italia.

L’andamento dell’ultimo anno premia gli Impiegati, la cui RAL è aumentata dello 0,9% (su scala nazionale si rileva un calo dello 0,1%). I Quadri hanno mediamente percepito una retribuzione fissa di 54.721 €, valore superiore alla media nazionale di circa 600 €. Si tratta della 3^ famiglia professionale più pagata fra le 9 analizzate.

Gli Impiegati della funzione Marketing & Comunicazione presentano invece nel 2018 una RAL media pari 30.236 €, inferiore di circa 540 euro rispetto alla RAL media nazionale. Nella graduatoria tra famiglie professionali, gli Impiegati si posizionano al 5° posto.

Dall’analisi emerge che l’esperienza e l’età pesano maggiormente sugli stipendi degli impiegati. Un impiegato con più di 5 anni di esperienza arriva a percepire il 16,9 in più rispetto a un collega con meno di 2 anni (3.8% se si tratta di quadri), mentre un ultracinquantacinquenne arriva a percepire il 39% in più in busta paga rispetto a un collega tra i 25 e i 34 anni (16,6% se si tratta di quadri). Anche se si analizza la dimensione delle aziende lo stipendio degli impiegati è quello che varia più significativamente (+29,4% rispetto al +11,5% se si tratta di quadri: un impiegato in una microimpresa guadagna meno di 27 mila euro, oltre 34 se lavora in una grande azienda).

Le industry e i ruoli

Per i quadri del marketing e della comunicazione è il settore alimentari e bevande ad offrire i compensi più alti (58.971 euro lordi annui (con una parte variabile pari al 10,8%). Fra gli impiegati è il  settore oil &gas che  presenta la retribuzione media più elevata (34.631 euro l’anno con una parte variabile pari al 9,6%).

Le differenze regionali

A livello regionale, i quadri che operano in Friuli scalzano i colleghi Liguri al primo posto l’anno scorso e percepiscono la RAL più alta (56.934 euro l’anno) mentre in Valle D’Aosta la più bassa (48.302 euro l’anno), con una differenza di quasi 9.000 euro l’anno. Tra gli impiegati invece sono i Lombardi a ricevere lo stipendio più alto, gli unici sopra i 31 mila euro l’anno e gli Abruzzesi quello più basso (25.517 euro l’anno, 6.000 euro in meno dei colleghi del nord).

 

A proposito di futuro della professione

di Rita Palumbo

Nel decreto legge CRESCITA n. 34 del 30 aprile 2019, entrato in vigore il 1 maggio e pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n. 100, non c’è il “pacchetto Casse previdenziali privatizzate”. Scampato pericolo per la contribuzione forzata ed obbligatoria dei comunicatori nelle casse dell’INPGI? No, la telenovela non è finita e a quanto riportano i media una parte del governo (guidata dal sottosegretario del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, Claudio Durigon, Lega) si appresterebbe a ripresentare un proprio emendamento al Disegno di legge di conversione, che prevede il trasferimento all’INPGI di 8.800 comunicatori professionali che lavorano in imprese private e di 5.100 dipendenti della Pubblica Amministrazione, già da luglio 2019.

Sarebbe un grave errore perché non si salverebbero le casse dell’INPGI, né si favorirebbero le nuove professioni. Il disavanzo previdenziale della Cassa dei giornalisti non può essere riequilibrato con i contributi derivanti dall’ingresso forzato dei comunicatori, non solo per la gravità dei conti degli ultimi due bilanci dell’Istituto: meno 100,6 milioni di euro nel 2017 e meno 161,4 milioni nel 2018. Le previsioni del mercato del lavoro dell’informazione sono sempre più negative e si inseriscono nel contesto economico del Sistema Paese, che come indicato nel “Documento di economia e finanza 2019” sta vivendo una fase di stagnazione. Si tratterebbe di un’operazione di “tamponamento” di pochi anni che metterebbe a rischio le pensioni dei giornalisti e quelle dei comunicatori.

In un quadro così complesso, l’unica soluzione, a nostro avviso, è avviare un tavolo di confronto urgente tra governo, giornalisti e le associazioni di rappresentanza dei comunicatori per:

1. bloccare qualsiasi tentativo legislativo calato dall’alto che, con una visione miope e di brevissimo periodo, inciderebbe in modo disastroso su decine di migliaia di lavoratori e di famiglie dell’informazione e della comunicazione;

2. cancellare ogni infondata e immotivata contrapposizione tra giornalisti e comunicatori, professionisti che operano negli stessi mercati ma con professionalità specifiche diverse e diversi obiettivi di scopo;

3. valorizzare le differenti competenze per rafforzare tutte le professioni e gestire le evoluzioni imposte dalla digitalizzazione nel rispetto degli obblighi deontologici;

4. costruire norme contrattuali a sostegno e a difesa delle diverse professionalità che garantiscano le pensioni di tutti gli operatori dell’informazione e della comunicazione attraverso la costituzione di una Gestione INPS dedicata.

Questi i “titoli” delle nostre proposte che – siamo certi – sono condivise da tutti coloro che credono fortemente nel ruolo sociale dell’informazione e della comunicazione sia privata che pubblica.

La questione non può riguardare solo il salvataggio delle casse dell’INPGI. Riguarda il nostro futuro.

I comunicatori, tramite tra il mondo e l’impresa

di Alessandro Cederle

Quando si parla senza ascoltare non si sta facendo comunicazione; si sta tenendo un comizio. Questo il punto di partenza di una riflessione sui cambiamenti in atto nel mondo delle PR e in particolare della Media Intelligence, ai margini di un recente incontro tra aziende internazionali del settore, ospitato da L’Eco della Stampa. Un’occasione preziosa per gettare lo sguardo su come sta cambiando il mercato del monitoraggio e dell’analisi dei media su scala globale, dall’Europa all’Asia, dalle Americhe all’Africa. Fino all’Italia. Che ha “vinto facile” la partita legata al ruolo di paese ospitante, sfoderando di fronte agli stranieri la nostra arma non tanto segreta, ovvero il fascino assoluto del Bel Paese, protagonista il Lago Maggiore in quel di Ranco, paesino incantevole in punta di penisola, accarezzato dal sole dei primi giorni della primavera 2019. Quando si tratta di mettere a frutto gusto, bellezza, spirito artistico, cultura, clima, senso dell’ospitalità e intelligenza, non siamo secondi a nessuno. Questa non è un’osservazione estetica e dovremmo ricordarcene più spesso in un mondo dove la qualità è la nova quantità e ogni fattore di successo è necessario per combattere una concorrenza globale sempre più aggressiva.

Il mondo non è più lo stesso, il mondo sta cambiando; è un ritornello che sentiamo ormai con eccessiva frequenza, tanto da diventare tedioso e scontato. Quello che è certo è che il modo di comunicare che ci ha accompagnato fino all’inizio degli anni 90 sta scomparendo, se già non è proprio bell’e che svanito. Bei tempi quelli, al vertice dell’Hit Parade c’era l’estate italiana di Bennato/Nannini, il dudududadada di Mietta/Minghi e il Phil Collins di Another Day in Paradise. Fast forward, trent’anni dopo il paradiso di Phil può attendere e ci ritroviamo a vivere di YouTuber e Influencer.

Quello che è successo da allora ha “disrupted” i modi di trasmettere un messaggio, nel passaggio dall’enorme imbuto dei mass media ai nuovi mezzi che trascendono la passività del pubblico facendo del link e dell’interattività i propri principi cardine. Link e interattività scoloriscono il ruolo centrale del messaggio in quanto tale, spostando il baricentro all’esterno, sulla rete, il social graphche è la vera sostanza della conversazione in corso. Ci definiamo in quanto parte di una rete, più di quanto veniamo definiti dal contenuto dei messaggi che scambiamo. Così come l’interattività distrugge qualsiasi tentazione di monolateralità. Non si trasmettono più messaggi, si passeggia (virtualmente) e si entra a far parte delle conversazioni in corso tra gruppi di amici, o nei capannelli che spontaneamente si formano attorno ad argomenti di interesse.

Il lavoro del comunicatore dunque non consiste più nella capacità di costruire la notizia, quanto piuttosto nella capacità di leggere e analizzare contesto e pubblico per creare, per costruire un “network di attenzione”.

«La vera risorsa scarsa non è il denaro, è il tempo» chiosava in Wall Street 2 Gordon Gekko (quello di «se proprio vuoi un amico cercati un cane”). «Il nostro vero concorrente non è HBO, ma Twitch» ha insistito recentemente il Reed Hastings di Netflix. Gli eserciti non si battono più per il real estate, per occupare i territori, che siano centimetri quadrati di giornale o secondi in un dibattito televisivo. La nostra guerra è quella per essere rilevanti all’interno delle conversazioni tra persone. Le nazioni si scontrano su Facebook, fanno mud wrestlingtra notifiche, cuoricini e commenti, invece di combattersi ai confini fisici – grande tema quello dei confini, vecchi e nuovi e se ne occuperà fino in fondo la prossima edizione di Inspiring PR.

L’attenzione delle persone è la pietra filosofale dell’era convulsa e disordinata che stiamo vivendo; e creare le condizioni per l’attenzione è il mestiere del comunicatore.

Occorre battersi per essere percepiti come interessanti, sudando engagement sui canali sui quali le persone condividono praticamente tutto. Gran brutta moda quella dello sharing, non rispetta né privacy né pudore, non permette alcuna forma di controllo. “Quello che arriva in rete appartiene alla rete” mi raccontava un adolescente qualche settimana fa. Da questo brodo primordiale, confuso e sregolato, occorre passare per costruire quell’interesse delle persone che poi rende il brand rilevante. La pena per chi non ci riesce? L’irrilevanza appunto, il mondo delle tenebre per tante marche triturate dalla timeline, serpente orrendo che sempre striscia e mai si ferma e che in troppi cercano di combattere inutilmente a colpi di organic advertising.

Ma che bello che era una volta, come si viveva bene! Il mondo dei mass media era gestito da una filiera chiaramente delineata e stabile, un mondo molto più semplice, prevedibile e dunque controllabile. Quello dei social è inesorabilmente eterodiretto e non fa sconti a nessuno. Chi sostiene che sia possibile pianificare la viralità sta mentendo e si salva la faccia acquistando likenei paesi dove costano pochi dollari al quintale.

È necessario mettere davanti la capacità di leggere, comprendere, analizzare; cogliere la focalizzazione delle persone dove si forma e dove si trasforma; sapere entrare nella conversazione mentre si svolge, con un’attenzione quasi antropologica; porsi sempre come utili e rilevanti in base all’argomento e al mood del momento, altrimenti tacere; sottrarsi alla tentazione sempre ricorrente di parlare di sé stessi, dei propri prodotti, della propria mission; evitare il gergo da marketing che suona sempre più logoro, stantio e in alcuni casi francamente offensivo: target, pubblico, nicchia, segmento, stakeholder e poi il peggiore di tutti, consumatore, l’essere umano concepito come ente dotato dell’attitudine al consumo. È necessario apprezzare e valorizzare la dimensione personale del mondo. Sostituire il groove al comunicato.

Le PR di oggi vanno oltre i messaggi chiave e la protezione dalle cattive notizie. Devono piuttosto rispondere alla domanda dell’impresa che vuole (diciamo la verità, deve, è costretta a…) costruire il proprio business in ragione, in funzione, all’interno di un mondo che è diventato stretto, piccolo, totalmente interconnesso, attivo 24/24, dotato di reattività immediata, fulminea, su scala globale e maledetto da un “pensiero breve e veloce” che esige soddisfazione immediata, non lascia spazio a ripensamenti, a precisazioni e a qualsivoglia tipo di pietà umana.

Per ottemperare a questo compito occorre andare più in profondità, accettare una sfida inedita, chiedere al cliente, interno o esterno che sia, un coinvolgimento molto più profondo; attivare un piano strategico della comunicazione e dell’ascolto. Le “nuove PR” saranno tanto più efficaci nel garantire la reputazione aziendale quanto più sapranno favorire una rilettura della strategia della società alla luce della comprensione di quello che davvero importa alle persone.

Già, ma cosa ne pensa il CEO, l’Amministratore Delegato, uno che sui social ci va poco e giusto per non fare figure con i figli, uno che l’ultima volta che è salito in metrò era ancora all’università, neanche guida perché ci pensa l’autista, e non sa che al McDonald’s ormai le ordinazioni si fanno su uno schermo? Ebbene, anche lui è salito a bordo. Secondo uno studio condotto da Deloitte, l’87% dei top manager pensa che i rischi legati alla reputazione online del brand sono di gran lunga più pericolosi di tutti gli altri rischi strategici. Di gran lunga più pericolosi.

Molta strada c’è ancora da fare. È preoccupante vedere aziende che insistono nello sbarcare su Facebook con un approccio tradizionale, “anni ‘90”, allestendo una bella vetrina che lancia un tornito messaggio istituzionale … sullo stesso canale usato per il revenge porn e il reclutamento di terroristi. Meglio stare lontani, certo, aprire l’account, ma proprio solo per evitare il cyber squatting, disabilitare i comenti e utilizzarlo solo per comunicare l’orario di apertura delle filiali e il numero verde del call center (che tra l’altro spesso mancano, alla faccia dell’interesse, dell’utilità e della rilevanza, e ci deve pensare Google Maps).

E la capacità dell’ufficio stampa di non fare uscire le notizie scomode? Beh, se le chiamano shit storm una ragione ci sarà, e non sto qui a tradurre.

Occorre vivere il momento e acquisire l’abilità di stare in mezzo alla tempesta, esercitando influenza (influencer, non stanno lì per caso) su quello che passa tra la folla. La scommessa ha una posta enorme. I comunicatori possono essere il tramite tra questo nuovo mondo e tutta l’impresa, gli artefici di un riorientamento di aziende ed enti nei confronti di una società digitale che è qui per restare. Nell’anno di Leonardo, altra luminosa stella nostrana, può essere il principio di un nuovo rinascimento dell’arte delle PR, centrato su un ascolto attivo e consapevole.

#MercatoLavoro di Rita Palumbo

 

Il blogger non è un Internet Service Provider

Lo scorso 20 marzo la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata per confutare l’assunto secondo il quale la disciplina degli Internet Service Provider possa essere estesa agli amministratori di blog.

Ancora una volta la Suprema Corte di Cassazione (sentenza n. 12546 del 20 marzo 2019) si è pronunciata sulla responsabilità dei protagonisti del web, questa volta per confutare l’assunto secondo il quale la disciplina degli Internet Service Provider (ISP) possa essere estesa sic et simpliciter agli amministratori di blog.

Con la diffusione di internet e quindi con l’aumento esponenziale delle occasioni di connessione e condivisione in Rete, si è posto il problema della previsione normativa di fattispecie che disciplinino un sistema sanzionatorio finalizzato ad arginare il fenomeno della graduale crescita degli illeciti commessi dagli internauti. La casistica di illeciti è variegata e, in ragione della iperbolica amplificazione del sistema, crea forti problematiche di tipizzazione: domain grabbing, furti di identità, cyberbullismo, diffamazione a mezzo internet, accesso abusivo a reti informatiche, pedopornografia e numerosi altri fenomeni.

In particolare, le condotte diffamatorie sono state facilitate dalla possibilità, per un numero esponenziale di utenti di internet, di esprimere giudizi su tutti gli argomenti trattati, con la conseguenza che agli “opinionisti social” spesso si associano i cosiddetti “odiatori sul web” i quali non esitano – soprattutto dietro l’anonimato – ad esprimere giudizi offensivi.

Fuor di dubbio, per un consolidato orientamento della Suprema Corte, è che il commento diffamatorio propalato in Rete integri un’ipotesi di diffamazione aggravata in quanto si tratta di un’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa (art. 595, comma 3, cod. pen.), capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone.

Controverso è invece il tema della responsabilità dei fornitori di servizi informatici (ISP).

Premesso che anche i providers rispondono degli illeciti posti in essere in prima persona, la problematica riguarda invece il caso in cui questi siano chiamati a rispondere di un fatto illecito altrui, posto in essere avvalendosi delle infrastrutture dal medesimo messe a disposizione (l’hosting provider, dall’inglese “to host” che significa “ospitare”, fornisce all’utente, ospitandolo appunto, uno spazio telematico da gestire).

La normativa di riferimento è contenuta nel decreto legislativo del 9 aprile 2003 n. 70, emanato in attuazione della Direttiva europea sul commercio elettronico 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici della società dell’informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico.

La Direttiva europea non impone al provider né l’obbligo generale di sorveglianza ex ante, né tanto meno l’obbligo di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite. Impone loro, tuttavia, di informare prontamente degli illeciti rilevati le autorità competenti e di condividere con le stesse ogni informazione che possa aiutare a identificare l’autore della violazione. La mancata collaborazione con le autorità fa sì che i providers vengano ritenuti civilmente responsabili dei danni provocati.

Con il contratto di hosting, dunque, i providers sono responsabili nel caso in cui, effettivamente a conoscenza della presenza di un contenuto illecito sui propri server, omettano di rimuoverlo. Sotto il profilo penale pertanto si può affermare che l’ISP risponda per concorso omissivo nel reato commissivo dell’utente che “carichi” in Rete un contenuto penalmente illecito.

E proprio in questo sta la inapplicabilità della disciplina prevista per i providers agli amministratori di blog. Questi ultimi non forniscono alcun servizio di hosting, bensì si limitano a mettere a disposizione degli utenti una piattaforma sulla quale poter interagire attraverso la pubblicazione di contenuti e commenti su argomenti nella maggior parte dei casi proposti dallo stesso blogger, in quanto caratterizzati dalla linea, che si potrebbe definire (anche se impropriamente) “editoriale” o in ogni caso “tematica”, impressa proprio dal gestore della piattaforma.

Il blog è concepito principalmente come contenitore di testo (ovvero come diario o come organo di informazione indipendente), aggiornabile in tempo reale. Inoltre qualora l’autore del blog lo permetta, al post possono seguire i commenti dei lettori. Il blog consente dunque l’interazione anche con soggetti terzi, che possono rimanere anonimi.

Orbene, ritenere il blogger responsabile per tutto quanto scritto sul proprio sito anche da altri soggetti, significherebbe ampliare a dismisura il suo dovere di vigilanza, ingenerando un eccessivo onere a suo carico. Tuttavia, se il blog è stato implementato di alcuni filtri nella pubblicazione dei contenuti, per evitare conseguenze penali, il gestore è tenuto a vigilare e approvare i commenti prima che questi siano pubblicati.

Conseguentemente, va esclusa una responsabilità personale del blogger ogni qualvolta questi, reso edotto dell’offensività della pubblicazione, decide di intervenire prontamente a rimuovere il post offensivo.

Pertanto in caso di non tempestiva attivazione da parte del blogger nella rimozione di commenti offensivi pubblicati da soggetti terzi sul suo blog questi ne risponderà non per aver omesso di impedire l’evento diffamatorio ex art. 40, comma 2, cod. pen., non per culpa in vigilando ex art. 57 cod. pen. come accade per il direttore o vice-direttore di un periodico, stante la non equiparabilità di un blog ad un periodico, neppure telematico, attinente alla sfera dell’informazione di impronta professionale, bensì – in assenza di norme specifiche – a titolo di consapevole condivisione del contenuto lesivo dell’altrui reputazione, con ulteriore replica dell’offensività dei contenuti pubblicati.

In altri termini, se il gestore del sito apprende che sono stati pubblicati da terzi contenuti obiettivamente denigratori e non si attiva tempestivamente a rimuoverli, finisce per farli propri e quindi per porre in essere ulteriori condotte di diffamazione, che si sostanziano nell’aver consentito, proprio utilizzando il suo blog, l’ulteriore divulgazione delle stesse notizie diffamatorie.

Certificazione della professione, un altro passo avanti

In un contesto sociale ed economico nel quale la professione del Comunicatore sta precisando sempre meglio la sua peculiarità nel variegato universo dell’informazione, l’avvio della procedura di definizione della norma UNI, che definisce le caratteristiche del Comunicatore Professionista, assume un particolare significato anche per i relatori pubblici.

In sede UNI il 28 febbraio scorso si è riunito infatti il Gruppo di lavoro presieduto da Ferpi che ha il compito di determinare – attraverso indicatori di conoscenza, abilità, competenza e titoli di esperienza – i requisiti che descrivono il Comunicatore professionista. E’ attraverso la Norma così definita che i comunicatori potranno ottenere la certificazione della professione valida a livello internazionale.

Per Ferpi significa completare il percorso di valorizzazione della professione iniziato con il riconoscimento di conformità alla Legge n.4/2013 − che ha disciplinato le professioni non organizzate in Ordini o Collegi e prevede l’autoregolamentazione volontaria per la qualifica delle figure professionali. Prevedere che un’attività lavorativa possa essere qualificata anche attraverso la certificazione delle figure professionali, rilasciata da un organismo accreditato (Accredia, ente unico di accreditamento per gli organismi di certificazione), in conformità alla norma UNI definita per quella specifica funzione, rappresenta una novità per il panorama legislativo italiano in materia di professioni.

Si passa infatti da un approccio di tipo amministrativo, basato sul sistema ordinistico o comunque su procedure autorizzatorie, ad un approccio diverso, più legato al mercato.

La certificazione di parte terza da parte di un organismo accreditato rispetto a un’attestazione rilasciata unilateralmente ai propri soci da un ordine, pur prestigioso, determina un cambio di paradigma. Significa assumere come discriminante di qualità una deontologia che dà valore alle garanzie per gli utenti e per il proprio mercato di riferimento sul servizio prestato.

Per Ferpi aderire a una logica di posizionamento, che volge l’attenzione agli stakeholder, al mercato e ai decisori, è coerente con quanto svolto a sostegno della professione negli ultimi 50 anni, una conferma di quanto i professionisti che si riconoscono nella nostra associazione hanno perseguito nelle loro attività.

Quindi in un mercato dell’informazione con confini labili e con problemi reali di riconoscimento della veridicità poter ottenere una certificazione riconosciuta come indicatore di qualità del servizio erogato all’interno del settore e a livello internazionale, rappresenta un punto di svolta destinato a designare una linea di demarcazione nell’identificazione del Comunicatore professionista come soggetto focale nei processi comunicativi di aziende, enti, associazioni.

L’impegno di Ferpi per far sì che la Norma UNI di riferimento risponda con efficacia alle composite professionalità che possono identificarsi nel profilo di Comunicatore professionale è iniziato da una richiesta di riflessione corale sulle definizioni di ruolo attualmente utilizzate con l’intenzione di applicarle allo schema normativo. Nel primo step del percorso –  la scheda pre-normativa approvata a fine gennaio –  il ruolo del comunicatore professionale è definito come un’attività manageriale a forte contenuto intellettuale, finalizzata alla definizione di obiettivi di comunicazione come asset strategico di sviluppo di istituzioni, organizzazioni pubbliche, private e non profit e di persone fisiche.  Questo il punto fermo dal quale declinare i profili e le funzioni dei comunicatori con particolare attenzione a creare rispondenza tra quanto effettivamente richiesto e applicato dal mercato e quanto la Norma prescrive e a una corretta descrizione anche delle nuove professionalità che l’utilizzo dei canali digitali ha creato.

www.ferpi.it

AGCM, una svolta per l’accesso dei Comunicatori alla P.A.

di Rita Palumbo

Non è solo una segnalazione. Non è solo un parere legale. È una vera e propria vittoria per i professionisti della Comunicazione.
L’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ha accolto l’esposto di FERPI ed ha deciso di segnalare al Presidente del Senato della Repubblica, al Presidente della Camera dei Deputati, al Presidente del Consiglio dei Ministri, al Ministro per la Pubblica Amministrazione e all’Associazione Nazionale Comuni Italiani che l’applicazione della legge 150/2000, nell’imporre il requisito dell’iscrizione all’albo dei giornalisti per le attività della Comunicazione determina “… conseguenze negative sull’efficienza dei meccanismi di selezione e sulla qualità delle caratteristiche dei servizi offerti alla pubblica amministrazione”.
Qualità, competenze, pari opportunità di accesso al mercato della Pubblica Amministrazione, inadeguata interpretazione della legge 150/2000. Sono queste le parole chiave che ci fanno brindare ad un traguardo senza precedenti, che rafforza la nostra convinzione di continuare ad impegnarci nella più ardua battaglia verso il riconoscimento, la certificazione e l’adeguamento economico delle professioni della Comunicazione.
Che cosa comporta in concreto la segnalazione dell’Antitrust? La Pubblica Amministrazione, locale e centrale, dovrà ben applicare i dettami della legge 150/2000, riservando ai giornalisti iscritti all’ordine solo quelle attività di specifica competenza giornalistica. E, al contempo, dovrà riservare le attività di Comunicazione e pubbliche relazioni ai professionisti del settore.
In termini economici significa che, ipotizzando per difetto che le opportunità offerte dalla PA in tutta Italia siano 1000 posizioni all’anno e che ogni posizione valga un compenso annuale di 25mila euro, il mercato della Comunicazione beneficerà di un aumento occupazionale significativo e di un valore economico pari a 25milioni di euro all’anno.
Era necessario e improrogabile passare dall’amara contestazione di non poter svolgere la nostra professione nella PA, alla decisione di cercare lo spazio istituzionale adeguato a spiegare le differenze tra due professioni – quella giornalistica e quella del comunicatore – che non sono in contrapposizione, ma che sono diverse negli obiettivi di scopo e nelle skills professionali.
Il significato intrinseco – politico ed associativo –  dell’esito dell’esposto all’Antitrust significa che siamo riusciti a dimostrare che la nostra professione ha un valore di mercato e un’ identità professionale indispensabile allo sviluppo e alla crescita culturale del nostro Sistema Paese. Faremo sentire in modo continuo e costante la nostra voce ai tavoli istituzionale del Governo e continueremo a rafforzare la nostra dignità professionale impegnandoci in altre sfide: il confronto sulla previdenza, l’equo compenso, gli addendum contrattuali.
Il percorso è lungo e sicuramente insidioso, ma non impossibile, come è stato dimostrato.
Ringrazio l’Avvocato Fantigrossi che ci accompagna in quest’avventura, tutti i colleghi che hanno contribuito a raggiungere quest’obiettivo e in modo particolare Giovanni Landolfi, che con meticolosità e costanza ha dato il via alla riflessione lavorando con costanza per raggiungere l’obiettivo.

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