Il giornalismo partecipativo e il futuro della professione

Milano 29 dicembre 2021 – La digitalizzazione ha profondamente modificato il giornalismo. Non solo si sono moltiplicate le fonti di informazione, ma la notizia non è più di gestione esclusiva del giornalista. Il lettore non è più passivo ed è divenuto parte integrante del processo di diffusione dell’informazione. Stiamo vivendo l’era del giornalismo partecipativo, in cui l’audience ha una parte attiva in tema di raccolta, analisi, ma soprattutto di diffusione e veicolazione delle notizie, grazie ai social e ai mezzi di comunicazione digitali.

Il dato interessante non riguarda solo il modello di produzione delle notizie: il giornalismo partecipativo influenza anche la credibilità di una testata. Il grado di condivisione collettiva incide infatti sull’attendibilità di una notizia e soprattutto sulla reputazione di chi l’ha scritta, pubblicata e condivisa.

L’autorevolezza dei media non è quindi determinata solo dall’importanza che ha rivestito nella storia del giornalismo, ma viene sempre più influenzata dall’efficacia della gestione delle relazioni del pubblico, nella diffusione condivisa dei contenuti.

Il giornalismo digitale non potrà più prescindere dalla partecipazione attiva della sua audience nella stessa produzione dei contenuti.  Partecipazione che però ha avviato un altro processo: la velocità di consumo e la tempestività che impongono informazioni aggiornate 24 ore su 24, fruite su canali, digitali e non, molto diversi tra loro. Esigenze che hanno incrinato le fondamenta della cultura del giornalismo italiano.

I modelli di produzione, i canali di diffusione e le fonti di approvvigionamento delle notizie sono cambiati. Il giornalismo non è più territorio per pochi ed è un processo partecipativo. Tutto positivo? Domanda di difficile risposta.  La partecipazione “indiscriminata” genera anche problemi di affidabilità/veridicità delle fonti e sottolinea la necessità di competenze professionali per una corretta comunicazione.  Questioni tutte ancora irrisolte.

 

Articolo di Marco Provato

Il 50% del mercato dell’advertising è di Google, Facebook e Amazon

Groupm, media investment company del gruppo Wwp, ha pubblicato il report annuale “This Year Next Year: Global end-of-year forecast“, in cui traccia una previsione sulle performance dell’universo pubblicitario. Al di fuori dei confini cinesi, Amazon, Alphabet (società a cui fa capo Google) e Meta presidiano oltre il 50% della quota mondiale di advertising su tutti i mezzi di comunicazione, detenendo il controllo incontrastato del mercato pubblicitario.

Nel 2022, per l’advertising è prevista una crescita del 9,7%, con molte delle principali tendenze sproporzionatamente concentrate negli States, nel Regno Unito e in Cina, che insieme rappresentano circa il 70% di tutta la crescita dell’industria, nonostante costituiscano circa il 60% del mercato totale.

Il digitale traina l’intero comparto, rappresentando il 64,4% di tutta la pubblicità nel 2021 e, secondo la ricerca,  alla fine dell’anno la sua accelerazione raggiungerà il 30,5%.

Leggi la ricerca completa qui.

(Fonte: Pambianconews)

Il ruolo della comunicazione per la ripresa sostenibile

L’international Corporate Communication Hub ha presentato il secondo studio internazionale sul ruolo della comunicazione relativa a PNRR ed ESG.

(Roma 14 settembre 2021 – Comunicato stampa).

Negli ultimi 10 anni il volume delle conversazioni sui temi ESG è gradualmente aumentato in tutto il mondo con un balzo in avanti tra il 2019 e oggi. La Pandemia ha però peggiorato il tono delle conversazioni attorno agli ESG e le corporation. Se nel pre-pandemia oltre alla industry dei beni alimentari anche le aziende del settore estrattivo erano apprezzate per gli sforzi indirizzati alla sostenibilità e quindi godevano di un relativo sentiment positivo in rete, nel post pandemia solo il settore delle rinnovabili ha mantenuto un sentiment positivo.

È quanto emerge dallo studio internazionale “PNRR, ESG: il ruolo della comunicazione” dell’International Corporate Communication Hub (ICCH) realizzato dall’Università IULM sul database Mettle Capital, sviluppato da Università di Oxford, Cambridge e Sussex, presentato ieri a Roma alla Terrazza Associazione Civita e trasmesso sulla pagina Linkedin de Il Sole 24 Ore e sul sito dell’Università IULM. I ricercatori hanno raccolto i dati sulle conversazioni nel web relative alle tematiche di sostenibilità tra gli utenti e i media online in Francia, Spagna, Germania e Italia ed è emerso che quando le persone e i media in tutti i paesi analizzati riflettono sulle corporation, dibattono in misura decisamente minore di sostenibilità sociale legata ai dipendenti e ai cittadini.  

 

“Il nostro Paese viene da un momento difficile, c’è molto scetticismo sulla possibilità di cambiare le cose”, ha detto Enrico Giovannini, Ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili. “Come dice il Presidente del Consiglio le cose prima si fanno e poi si comunicano, ma stiamo facendo così tante cose che non è semplice comunicarle. Anche come Ministero che ha la fetta più ampia del PNRR, 62 miliardi stiamo provando ad andare in questa direzione anche con l’ausilio di soggetti privati e di altre istituzioni pubbliche per spiegare i dieci anni per cambiare l’Italia, per migliorare il benessere delle persone e per aumentare la competitività”.  “I cittadini hanno bisogno di vedere più che di sentire”, ha concluso Giovannini. “Faccio un esempio: l’anno prossimo avremmo la riduzione di un’ora dell’attraversamento dello stretto di Messina. Ma penso anche ai nuovi autobus, ai nuovi treni. Queste sono le cose in grado di comunicare il cambiamento sostenibile”.

 

“La sostenibilità è entrata a pieno titolo nelle finalità dell’impresa sia in una prospettiva di CSR che di creazione di vantaggio competitivo attraverso il rafforzamento del proprio capitale reputazionale in una convergenza naturale con le finalità della shareholders theory”, ha detto Angelo Miglietta, Prorettore Vicario con delega ai rapporti con le imprese IULM

“In Italia quasi la metà dei rispondenti al questionario ritiene prioritario per le corporation l’impegno verso una produzione sostenibile (48,95%). Sul fronte della sostenibilità sociale, più del 45% dei rispondenti ritiene prioritario l’impegno delle organizzazioni sulla massimizzazione della sicurezza dei dipendenti sul posto di lavoro”, ha illustrato Stefania Romenti, docente di Corporate Communication e Public Relations IULM, coordinatrice della seconda ricerca dell’ICCH. “L’altra metà è divisa nel giudicare prioritario il rispetto delle diversità e dei diritti umani (20,76%), il benessere dei dipendenti in termini di welfare aziendale (19,62%) e solo all’ultimo posto con il 12,95% è ritenuto prioritario l’impegno verso le comunità locali. Infine – conclude Romenti- secondo il 35,24% degli italiani, garantire l’equilibrio della retribuzione tra i lavoratori dovrebbe essere una priorità per le corporation in materia di governance sostenibile”.

 

Con riferimento al PNRR, è ampia la percentuale di cittadini (35%) che dichiara di avere una buona conoscenza dei contenuti, anche se è maggiore la percentuale di coloro che hanno una conoscenza moderata (39%). Il 38,7% degli intervistati ha dichiarato che la comunicazione del PNRR è stata equilibrata, completa (32,2%), oggettiva (36,1%) e accurata (33,5%). In termini generali ben il 63% degli italiani vede nel Piano un’importante opportunità e non sembra preoccuparsi dei rischi e delle criticità più volte riportate dai media, anche internazionali. La TV e naturalmente il web sono stati i canali più consultati per cercare informazioni sul Piano, con particolare riferimento ai video tematici su Youtube. La ricerca ICCH conferma che tra le fonti i giornalisti di testate accreditate sono i più attivi, anche in rete, nel generare dibattito sul PNRR e sono anche quelli che alimentano più engagement attorno ai contenuti del Piano di Recovery.

La componente internazionale è uno degli aspetti caratterizzanti l’International Corporate Communication Hub(ICCH) che è il primo Osservatorio internazionale sulla comunicazione corporate e istituzionale, come ha detto Stefano Lucchini, Presidente Advisory Board ICCH. “L’ICCH – ha precisato-  è un hub che mette in relazione manager e accademici per riflettere sul ruolo della comunicazione su tematiche di attualità e di rilevanza offrendo degli strumenti pratici di azione per iniziare a disegnare il futuro che vogliamo”.

 

Alla presentazione sono intervenuti anche Luigi Ferraris, Amministratore Delegato Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane, Marco Patuano, Presidente a2a, Carlo Tamburi, Direttore Enel Italia e Antonio Parenti, capo Rappresentanza in Italia della Commissione Ue.

 

 

La normalità post COVID-19

Quale sarà la normalità post COVID-19? Molto interessante lo scenario descritto dal “Rapporto Coop 2020 – Economia, Consumi e stili di vita degli italiani di oggi e di domani” redatto dall’Ufficio Studi di Ancc-Coop (Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori) con la collaborazione scientifica di Nomisma, il supporto di analisi di Nielsen e i contributi originali di Gfk, Gs1-Osservatorio Immagino, Iri Information Resources, Mediobanca Ufficio Studi, Npd,  Crif e Tetra Pak Italia. L’edizione 2020 del Rapporto è tutta orientata a descrivere la situazione della nuova realtà che ci attende quando la pandemia sarà conclusa e per fare questo, oltre alle fonti di solito utilizzate, si è avvalsa di due diverse survey denominate “Italia 2021 il Next Normal degli italiani” e condotte entrambe nello scorso mese di agosto. La prima ha coinvolto un campione di 2000 italiani rappresentativo della popolazione over 18. La seconda si è rivolta alla community del sito di italiani.coop ed ha coinvolto 700 opinion leader e market maker fruitori delle passate edizioni del Rapporto. Tra questi sono stati selezionati 280 soggetti (imprenditori, amministratori delegati e direttori, liberi professionisti) in grado di anticipare più di altri le tendenze future del Paese.  A tutti va il nostro ringraziamento.

Nuovo Mondo, Nuova Europa – Un nuovo mondo (e una nuova Europa) si intravedono all’indomani della pandemia che, simile a uno tsunami, ha invaso e alterato le nostre vite generando un contraccolpo economico violentissimo e delineando al tempo stesso una traiettoria incerta e sospesa di futuro. Niente a che vedere con le crisi del recente passato e piuttosto paragonabile agli effetti generati dall’ultimo conflitto bellico, sull’altare del Covid si sono volatilizzati 12.500 miliardi di dollari di Pil mondiale in un anno, sono 170 i Paesi che subiranno una contrazione del Pil procapite nel 2020 (per l’Italia  le ultime previsioni si attestano a un -9,5%), e solo nel 2023 (per i più pessimisti nel 2025) il nostro Paese ritornerà ai livelli precedenti la pandemia, peraltro a loro volta lontani dagli standard antecedenti l’ultima grande recessione. E se molti contano sul vaccino come spartiacque per la ripresa tanto da attribuirgli una sorta di valenza salvifica, fanno  riflettere quegli 8 milioni di italiani che dichiarano di non volersi vaccinare e comunque di voler attenderne gli esiti.

A livello mondiale tutto lascia prevedere uno spostamento ad Oriente del baricentro economico e geopolitico del mondo (la Cina, la Russia e le altre economie asiatiche rispettivamente per il 71%, 42% e 40% della business community italiana vedranno rafforzato il proprio ruolo a livello mondiale) mentre le economie atlantiche sembrano destinate a perdere la loro centralità (il 44% degli executive italiani si attende un indebolimento del ruolo geopolitico e economico degli Usa e il 78 di quello europeo). Contemporaneamente  però in maniera un po’ inattesa il Covid si è rivelato un  formidabile agente aggregatore dei 27 Paesi membri dell’Ue, ha sancito la fine dell’austerity e avviato un piano di rilancio di ingenti proporzioni di cui l’Italia godrà in larga parte. Non a caso l’87% dei top manager intervistati nella survey “Italia 2021, il Next Normal degli italiani” dichiara imprescindibile l’appartenenza alla Ue per superare la fase attuale. E il 42% indica come ambiti prioritari a cui destinare le risorse europee il potenziamento dell’istruzione, seguono gli investimenti sul capitale umano (lavoro per il 36%, tecnologia e digitalizzazione a pari merito e quindi infrastrutture e sanità/salute).

I nuovi stili di vita degli italiani – In attesa che il Recovery Fund si concretizzi e benchè confortati  dagli ammortizzatori sociali già messi in campo dal Governo, gli italiani  si rivelano essere ancora oggi i più pessimisti d’Europa e in effetti insieme agli spagnoli registrano il più ampio peggioramento delle proprie condizioni di vita rispetto al 2019 (e non sembra andare meglio se le ultime previsioni confermano un recupero nel 2021 solo della metà dei posti di lavoro che perderemo nel 2020). Contemporaneamente però nel nostro Paese “solo” il 5% delle famiglie fino ad ora afferenti alla classe media prevede di scivolare nelle classi più basse nei prossimi anni: un dato comunque drammatico ma inferiore a quel 12% che ha subito analoga sorte durante la crisi economica globale del 2006/2008. D’altro canto il 38% pensa di dover far fronte nel 2021 a seri problemi economici e tra questi il 60% teme di dover  intaccare i propri risparmi o di essere costretto a chiedere un aiuto economico a Governo, amici/parenti e banche.  A farne le spese sono soprattutto le classi più fragili, i giovani, le donne, mentre c’è un 17% di italiani che prevede nel 2021 un miglioramento delle proprie condizioni economiche (si tratta prevalentemente di uomini dell’upper class).

Il Covid ha avuto inoltre anche l’effetto di una macchina del tempo sugli stili di vita degli italiani, trasportandoli avanti e indietro con estrema rapidità rispetto agli andamenti temporali abituali. Da un lato compare così l’Italia delle rinunce con l’arretramento del Pil procapite ritornato ai livelli di metà anni ’90 e la spesa in viaggi trascinata indietro di 45 anni ai livelli del 1975 o i consumi fuori casa arretrati di tre decenni, dall’altra c’è invece l’Italia che balza in avanti velocizzando dinamiche già in essere, ma mai così veloci. E’ questa l’Italia dello smartworking (+770% rispetto a un anno fa), dell’egrocery (+132%), della digitalizzazione a tappe forzate non solo nella sfera privata ma finalmente anche nelle attività professionali (lavoro appunto ma anche didattica, servizi, sanità) che genera una crescita stimata di questo segmento di mercato pari a circa 3 miliardi tra 2020 e 2021.  Girando la sfera compare però anche un Paese dove si potrebbe arrivare nel 2021 a perdere 30.000 nascite scendendo così sotto la soglia psicologica dei 400.000 nati in un anno e anticipando di quasi un decennio il ritmo della denatalità. A rinunciare all’idea pianificata di avere un figlio a causa dell’emergenza sanitaria è il 36% dei nostri giovani (18/34 anni) a fronte ad esempio di un 17% dei francesi e addirittura di un 14% dei tedeschi. Non è la sola rinuncia importante: matrimoni, trasferimenti, acquisti di case e aperture di nuove attività figurano tra i progetti rinviati o cancellati e queste scelte di vita mancate hanno coinvolto in totale l’84% di italiani.  Le disuguaglianze economiche viaggiano poi di pari passo con i disagi psichici e sociali a svantaggio delle fasce deboli: i ragazzi iperconnessi per i quali è maggiore il rischio hikikomori salgono nei primi sei mesi dell’anno di un +250% fino a toccare quota 1 milione, +119% le chiamate al numero antiviolenza di genere da marzo a giugno. Per curare le ferite ci vorrà tempo: un 36% degli executive italiani si aspetta nei prossimi 3/5 anni una società più rancorosa e violenta.

La vita in una bolla – Il risultato finale al netto delle retrocessioni e degli avanzamenti è la sensazione di vivere sospesi in una bolla. Costretti nel lockdown ma diffusa ancora oggi e persino domani. E’ la bolla digitale che crea cluster chiusi e autoreferenziali, la bolla della vita affettiva che si autodelimita (pur generando soddisfazione), gli spostamenti che diventano di corto raggio e la comfort zone della casa che rassicura.  Tra le mura domestiche piuttosto che altrove ci si nutre (41% prevede di ridurre la spesa prevista nel prossimo anno alla voce ristoranti), ci si diverte (44% la quota di chi nel 2021 ridurrà la spesa per intrattenimenti vari fuori casa), si incontrano amici e familiari (o a casa propria o a casa loro). E se dovessero mancare affetti ci si adopera per riempire il vuoto: 3,5 milioni di italiani durante il lockdown o subito dopo hanno acquistato un animale da compagnia e 4.3 milioni pensano di farlo prossimamente. Da ultimo, l’elemento forse più insidioso è il restare prigionieri di bolle sociali e informative chiuse ed autoreferenziali, terreno fertile per l’informazione di parte e la proliferazione delle fake news. L’esplosione nell’uso dei social, il dilagare della fruizione di contenuti on demand, l’assenza di un confronto sociale ampio sono elementi che coinvolgono e coinvolgeranno una parte oramai sempre più ampia della popolazione (il 30% degli italiani nel 2021 aumenterà il tempo trascorso su internet e il 19% quello passato sui social).

Homemade, digital, safe e sostenibile il nuovo cibo degli italiani – La casa come salvagente a cui tenersi stretti fa il paio con un’altra costante che distingue ancora nel postcovid gli italiani dai cugini europei: il cibo.  Alla spesa alimentare, pur nell’emergenza e in una evidente contrazione generalizzata degli acquisti, gli italiani non rinunciano e solo il 31% dichiara di voler acquistare prodotti di largo consumo confezionato più economici a fronte di un 37% della media europea; un dato decisamente inferiore al 50% registrato lo scorso anno e al 57% del 2013 (anno in cui eravamo in piena crisi economica con un Pil a -1,8%). E anche a emergenza sanitaria finita solo il 18% dice di voler acquistare prodotti più economici. Guardando dentro al carrello si nota una straordinaria inversione di tendenza rispetto alla fotografia scattata appena un anno fa dal RapportoCoop2019. Allora era fuga dai fornelli, un fenomeno che in realtà continuava in progressione costante tanto da dimezzare in 20 anni il tempo passato a cucinare ogni giorno ridotto allora a appena 37 minuti. Complice il lockdown invece gli italiani hanno rimesso le mani in pasta e anche nel postcovid il cook@home è una costante che spiega la forte crescita nelle vendite degli ingredienti base (+28.5% in GDO su base annua) a fronte della contrazione dei piatti pronti (-2,2%). Supportati o meno da aiuti tecnologici (la vendita dei robot da cucina ha fatto registrare a giugno +111% rispetto all’anno prima), il 30% dedicherà ancora più tempo alla preparazione del cibo e il 33% sperimenterà di più. 1 su 3 lo farà per “mangiare cose salutari”, ma c’è anche un 16% che lo ritiene un modo per mettersi al riparo da possibili occasioni di contagio. La preparazione domestica dei cibi è probabilmente anche la nuova strategia degli italiani per non rinunciare alla qualità e contemporaneamente alleggerire il proprio budget familiare.

Nella bolla si accorcia anche la filiera del cibo e per un italiano su 2 l’italianità e la provenienza dal proprio territorio acquistano ancora più importanza di quanta ne avessero in periodo precovid dove già godevano di ampia popolarità.  E sempre per questioni di sicurezza nell’estate appena trascorsa abbiamo assistito a una vera e propria rivincita del food confezionato che cresce ad un ritmo più che doppio rispetto all’intero comparto alimentare se paragonato a un anno fa: +2,3% contro +0,5% (giugno-metà agosto 2020). Il packaging protettivo e avvolgente sembra in questo caso fare la differenza in tutti i comparti: l’ortofrutta e persino i salumi e latticini. Mentre guardando i carrelli sempre nell’estate riacquista forza il gourmet (+16.9%), l’etnico (+15,4%) e il vegan (+6,9%).

Dopo il boom del lockdown non accenna a diminuire nemmeno la corsa all’efood. A fianco dell’ecommerce puro però gli italiani sembrano voler scegliere soluzioni miste; il click&collect ad esempio passa dal 7.2% delle vendite on line del 2019 al 15,6% nella fase successiva alla pandemia. E c’è anche chi (è il 42%) ritiene comunque importante il consiglio del negoziante/addetto al banco a riprova che la parola chiave sembra essere sempre più la multicanalità. A costituire un deterrente è il caro prezzo dell’online: +25% rispetto al carrello fisico (marzo-giugno 2020). Un divario di prezzo diminuito rispetto al 2019 quando si attestava su un +35%, ma comunque tale da far sì che la spesa digitale sia un’abitudine diffusa tra le famiglie con redditi medio alti: la quota di acquirenti egrocery passa dal 39% dei ceti popolari al 53% della upper class. E sarà ancora quest’ultima a trainare la domanda nel futuro prossimo (lo dichiara il 43%).

E tra le costanti che il Covid non ha spazzato via riemerge con forza l’attenzione prestata dagli italiani ai temi della sostenibilità. Se è vero che per il 35% dei manager intervistati nella survey “Italia 2021, il Next Normal degli italiani” lo sviluppo della green economy è una delle tendenze che caratterizzeranno in positivo il postcovid, questa sorta di nazionale coscienza verde si traduce in acquisti correlati. Nel confronto internazionale non c’è gara. Il 27% degli abitanti del Bel Paese acquista prodotti sostenibili/ecofriendly di più rispetto a prima del Covid (i francesi e gli spagnoli seguono distanziati con un 18% in percentuale); il 21% -in questo caso appaiati agli spagnoli- ha aumentato gli acquisti in punti vendita che promuovono prodotti sostenibili (contro un 17% degli americani e un 15% dei tedeschi) e il 20% acquista di più da aziende che operano nel rispetto dei lavoratori. Degno di considerazione anche quell’1.700.000 di italiani che sperimenteranno gli acquisti green per la prima volta a emergenza finita.

COOP – “È indubbio che il Covid abbia cambiato i comportamenti degli italiani come il Rapporto ci racconta. –sottolinea Maura Latini, amministratore delegato Coop Italia- Ci conforta ritrovare in questi mutamenti delle conferme su tendenze già individuate da Coop e su cui ci stiamo posizionando con forza distinguendoci anche dai competitor.  La sensibilità green degli italiani in primis su cui stiamo molto investendo e che abbiamo visto riconfermata anche durante e dopo il lockdown nei nostri dati interni. Il nostro marchio di prodotti biologici Vivi Verde è il primo brand bio venduto nella grande distribuzione in Italia con oltre 150 milioni di fatturato nel 2019 e non ha cessato di crescere durante e dopo il lockdown con un trend a valore del +9%. Ma è più in generale tutto quanto attiene al tema sostenibilità e cibo su cui il nostro prodotto a marchio non teme rivali. Voglio ricordare l’impegno che ci siamo presi con i nostri soci e consumatori sia bloccando i prezzi dei nostri prodotti  fino alla fine del mese di settembre e l’offerta di 10 dei nostri prodotti al prezzo di 10 euro (“Operazione Forza 10”). Il prezzo volutamente conveniente (sconto medio del 37% rispetto al prezzo normale) non deve distogliere dal valore dei singoli prodotti che hanno tutti la garanzia Coop, la tracciabilità e l’aggiunta di caratteristiche uniche (è il caso dell’antibiotic free o del controllo etico sulla filiera). Operazione peraltro molto apprezzata; le 10 referenze in 3 mesi hanno registrato vendite di 9,5 milioni di euro, con quantità doppie rispetto allo scorso anno, con punte di crescita del +300% o oltre. Continueremo a lavorare in questa direzione sia sull’offerta, potenziando l’assortimento con prodotti Coop avanzati e innovativi sul versante della qualità e della sostenibilità, convenienti ed accessibili alle fasce deboli della società. Ma ripenseremo anche i nostri punti vendita seguendo  la logica delle nuove necessità mostrate dagli italiani: qui la scommessa non è offrire un servizio in più e mantenere lo status quo dell’offerta tradizionale, viceversa è rimettersi in gioco”.

“Coop fa parte con orgoglio di quella filiera agroalimentare che ha saputo reagire positivamente alla crisi del Covid19 e grazie all’impegno dei nostri colleghi di punto vendita ha fornito un servizio basilare alla collettività – dice Marco Pedroni, Presidente Coop Italia – Non ci siamo certo arricchiti, i dati delle vendite di marzo (con picchi anche del +20%) si sono successivamente ridimensionati, come è naturale. A giugno e luglio poi gli andamenti della grande distribuzione sono stati negativi, mentre ad agosto si registra una tenuta. Per la sicurezza e per il sostegno alle famiglie abbiamo fatto investimenti aggiuntivi di oltre 100 milioni in questi mesi. Come Coop prevediamo di chiudere l’anno con un leggero miglioramento del fatturato stimato in un + 1% e dunque un valore superiore a 13 miliardi di euro nella sola parte retail.

Siamo in una fase in cui si riducono i consumi per le difficoltà economiche di tante famiglie, ma anche per la preoccupazione sul futuro, tanto è vero che registriamo una forte crescita del risparmio. L’alimentare è al centro dell’attenzione delle famiglie, ma anche nel nostro settore c’è la propensione ad avere un carrello più leggero. Ci preoccupa la polarizzazione sociale per l’ingiustizia che cresce e per i suoi effetti sui consumi evidenziata anche nel Rapporto. Il rischio che la pandemia spinga verso soluzioni semplificate e meno sostenibili è reale, anche nei consumi di una parte delle famiglie. Confermiamo la nostra strategia che punta a prodotti buoni e sostenibili accessibili a tutti, non solo alle fasce che stanno meglio.

In questa fase si mescolano incertezza sul futuro e speranze nuove; la ripresa della domanda interna e dei consumi è fondamentale, non basta l’export. Crediamo che le istituzioni e il Governo, sulla spinta anche delle risorse UE, debbano essere protagoniste di uno straordinario piano di rilancio. Un piano che favorisca gli investimenti privati e pubblici per ammodernare il Paese, che defiscalizzi il lavoro, che sia di sostegno alla svolta “green”. Per quanto ci riguarda più direttamente crediamo che sarebbe importante una fiscalità e un sostegno alle produzioni e ai consumi verdi. Invece della plastic-tax che è un errore, azzeriamo l’IVA su chi usa plastica riciclata o per chi adotta soluzioni a basse emissioni.”

La versione integrale del Rapporto Coop 2020 è visionabile e scaricabile su http://www.italiani.coop

Servizi alle imprese: le conseguenze del COVID-19

COMUNICATO STAMPA

ASSEPRIM: NEL 2020 IL SETTORE RISCHIA DI PERDERE 4 MILIARDI DI EURO DI VALORE AGGIUNTO, OLTRE 30.000 IMPRESE E 87.000 POSTI DI LAVORO

Milano, 20 maggio 2020 – In Italia esistono 767 mila imprese dei servizi professionali alle imprese, che rappresentano il 23% del comparto del terziario. La consulenza aziendale è l’ambito più rappresentato. Importante anche la rappresentanza delle attività finanziarie (oltre 100 mila) e delle imprese di comunicazione e marketing (74 mila). Completano il comparto le imprese del settore audiovisivo, delle risorse umane, delle ricerche di mercato. Il comparto assicura un posto di lavoro ad oltre 2,5 milioni di occupati. Comparto, quello dei servizi professionali alle imprese, – spiega Asseprim, la Federazione di Confcommercio che lo rappresenta – che in parte ha subito il lockdown imposto dal Governo per l’emergenza Covid-19.

Fig 1. Universo delle IMPRESE dei servizi professionali.

Le imprese che operano in ricerche di mercato, attività di pubblicità, comunicazione ed eventi, produzione audiovisiva sono state costrette a chiudere, ripiegando solo quando possibile a canali alternativi quali lo smart working. Molte altre hanno potuto proseguire la propria attività (imprese finanziarie, editoria, gran parte della consulenza aziendale), ma tutte hanno patito in ogni caso indirettamente gli effetti del periodo di stop nei mesi di marzo e aprile. Il combinato disposto tra effetti diretti (imprese costrette a sospendere l’attività) ed effetti indiretti (imprese che hanno proseguito l’attività, ma si sono ritrovate con un volume d’affari ridotto quando non azzerato), traccia uno scenario – rileva Asseprim – che prelude a ricadute importanti sul contributo del settore all’economia nazionale: si stimano perdite di circa 4 miliardi di euro in termini di valore aggiunto prodotto dal settore dei servizi professionali alle imprese nell’arco del 2020. Pesante anche il potenziale impatto sul tessuto imprenditoriale e sui livelli occupazionali: a fine 2020 si stima possano scomparire tra le 28 e le 34 mila imprese dei servizi professionali e sono a rischio 87 mila posti di lavoro.

Fig 5. Effetti della crisi da COVID-19 sul TESSUTO IMPRENDITORIALE dei servizi professionali.

“Come dimostrano i numeri, per una volta questa crisi ha colpito e colpito molto duro anche noi, tutto il comparto” dichiara Umberto Bellini presidente di Asseprim, la Federazione dei servizi professionali di Confcommercio. Bellini ha indirizzato una lettera aperta al Presidente del Consiglio Giuseppe Conte richiamando al senso di responsabilità: “Dove può andare il Paese – ha affermato Bellini – se anche il settore che guida le aziende nelle proprie scelte va in crisi? Il pericolo serio, enorme, è quello di un impoverimento del mercato, nei prezzi e nei contenuti. Occorre sostenere il settore con misure immediate ed efficaci a sostegno della liquidità per garantire continuità aziendale; misure per limitare il peso delle imposte (tramite differimenti delle scadenze e rateizzazioni). Ma soprattutto, per ripartire veramente, occorre uno sforzo nella divulgazione culturale rispetto all’importanza strategica che rivestono i servizi professionali, inserendo misure impattanti in forma di incentivi a fondo perduto o di credito d’imposta per chi utilizza tali servizi; con buone guide, la ripresa potrà essere più rapida e di valore“.

QUI I DATI DI ASSEPRIM FOCUS (EDIZIONE SPECIALE COVID-19) REALIZZATO DA ASSEPRIM CON FORMAT RESEARCH

Asseprim: I servizi professionali all’impresa

ASSEPRIM è la Federazione nazionale Confcommercio che rappresenta le aziende e le associazioni di Servizi Professionali per le imprese. La Federazione tutela gli interessi e l’identità delle aziende che offrono servizi professionali alle imprese e le rappresenta in Confcommercio-Imprese per l’Italia ed in altre sedi Istituzionali. Le aziende rappresentate operano nei seguenti settori:

  • Finanziario e Assicurativo
  • Consulenza Aziendale
  • Risorse Umane
  • Ricerche di Mercato
  • Marketing, Comunicazione ed eventi
  • Audiovisivo

E siamo tutti Rete-dipendenti

Il rapporto annuale di We are SocialDigital 2020“, realizzato in collaborazione con Hootsuite non lascia dubbi: il nostro paese registra ancora un trend in crescita per quanto riguarda Internet, piattaforme social e nuove tecnologie. Sono infatti quasi 50 milioni gli utenti che accedono a Internet ogni giorno. YouTube si conferma la piattaforma più attiva, seguita dalla famiglia di app di Facebook (WhatsApp, Facebook, Instagram e Messenger nell’ordine).
La ricerca – alla sua nona edizione – delinea un paese “maturo” nell’utilizzo di Internet e dei canali social: ogni giorno sono 45 milioni le persone che accedono a Internet da mobile e 35 milioni quelle attive sui canali social, utilizzati in maniera sempre più diversificata, a scopo di intrattenimento, informazione, condivisione e conversazione.
In linea con altri paesi occidentali, anche gli italiani stanno sviluppando grande attenzione per temi importanti legati alla vita online, come il controllo della propria privacy e la scelta di fonti di informazione affidabili: più di una persona su due ha espresso preoccupazione per la tematica del trattamento dei dati personali (59%) e per il fenomeno delle fake news (52%).
LI principali risultati:
Internet

  • sono quasi 50 milioni gli utenti Internet su base giornaliera che trascorrono online 6 ore al giorno;
  • in crescita l’utilizzo della tecnologia voice: il 35% degli utenti Internet utilizza almeno un servizio controllato tramite la voce
  • gli italiani ricercano online intrattenimento ma anche “crescita” personale: il 92% della popolazione guarda contenuti video e il 34% vlog, il 57% ascolta musica in streaming, il 39% web radio e il 23% podcast
  • 1 italiano su 7 possiede uno smartwatch o un dispositivo wearable (dato triplicato rispetto al 2019, dal 5% al 15%)
  • in forte espansione il mondo del gaming: 4 italiani su 5 giocano e 1 su 8 segue il live streaming di altri giocatori

Social media

  • sono 35 milioni le persone attive sulle piattaforme social: il 98% di loro accede da mobile;
    le persone trascorrono in media sui canali social 1 ora e 57 minuti del tempo giornaliero, in aumento rispetto al 2019
  • la piattaforma social più attiva si conferma YouTube, seguita dalla famiglia di app di Facebook. Instagram registra la crescita più evidente anno su anno, dal 55% al 64%
  • in media sono circa 8 gli account per ogni persona

Mobile

  • quasi tutti gli abitanti del nostro paese possiedono uno smartphone (94%)
  • da mobile gli italiani utilizzano soprattutto app di messaggistica (92%), per l’intrattenimento e la fruizione di contenuti video (73%), per l’ascolto di musica (52%), per lo shopping (68%) e il gaming (43%)

E-commerce

  • la crescita nell’utilizzo di Internet sta trainando anche l’e-commerce: l’87% degli utenti attivi ha dichiarato di aver cercato online prodotti e servizi da comprare, mentre il 77% ha acquistato online un prodotto nell’ultimo mese

E cosa succede nel mondo?

  • sono 4,54 miliardi le persone online, con quasi 300 milioni di utenti che hanno avuto accesso ad internet per la prima volta nel corso del 2019
  • la metà della popolazione mondiale – 3,8 miliardi di persone – utilizza regolarmente i social media
  • le piattaforme social più attive sono Facebook, YouTube e WhatsApp, e si registra una crescita significativa nell’utilizzo di TikTok con 800 milioni di utenti attivi al mese, di cui 300 milioni fuori dalla Cina

“Il nostro paese registra ancora un trend positivo per quanto riguarda l’aumento delle persone che accedono a Internet e ai social media, ma in questa fase di maturità quello che cambia è l’utilizzo, sempre più diversificato e consapevole. Accanto a realtà come Facebook e Google, che mantengono la loro leadership, emergono nuovi canali che introducono nuove modalità di espressione e fruizione dei contenuti. Un contesto che lancia una sfida a chi si occupa di comunicazione e ai brand che dovranno conoscere profondamente le esigenze delle persone a cui si rivolgono e come si esprimono per stabilire una connessione positiva, a prescindere dalla piattaforma utilizzata”, commentano Gabriele Cucinella, Stefano Maggi e Ottavio Nava, CEO We Are Social.

I report completi sono disponibili ai seguenti link:

https://wearesocial.com/it/digital-2020-italia 

https://wearesocial.com/digital-2020

PR: lo stato dell’arte nel 2020

Dal sito www.ferpi.it

Una nuova ricerca mostra le principali aree sulle quali puntano i professionisti delle digital PR per incrementare il loro vantaggio competitivo nel 2020. La piattaforma di social listening e analytics Talkwalker, ha collaborato con la società di ricerca internazionale YouGov alla realizzazione di una ricerca che ha coinvolto 3.700 professionisti del marketing e della comunicazione basati in Europa, USA, Africa, Asia-Pacifico, America Latina e Medio Oriente per analizzare lo stato dell’arte della industry nel 2020.

La ricerca globale “Lo stato delle PR nel 2020” rivela come varia la percezione e la definizione dell’offerta PR da una regione all’altra e come i diversi dipartimenti non possono più permettersi di rimanere separati in silos non comunicanti. Lo studio mette anche in evidenza i diversi modi in cui i professionisti delle PR utilizzano il social listening nel loro day by day e quali metriche utilizzano per misurare le performance delle loro attività. Risulta evidente che, grazie all’adozione di strumenti di social listening per migliorare le attività di media management, influencer marketing, crisis e reputation management, il loro ruolo aumenta di valore all’interno dell’azienda.

A livello globale, la percentuale di coloro che hanno adottato una o più soluzioni di social listening si attesta al 48%. I Paesi dove questa media è ancora più alta solo la Francia (75%), l’Italia (72%), gli Stati Uniti (71%), il Sud Africa (71%), e l’India (68%). In fondo alla classifica troviamo invece la Svezia (25%) e la Norvegia (28%).  Nonostante circa la metà dei professionisti delle PR abbia confermato che le loro aziende utilizzano tecnologie di social listening, solo il 15% le utilizza per il newsjacking, perdendosi così un’enorme opportunità, considerato il fatto che sfruttare le notizie e i temi più caldi è una delle tecniche PR più efficaci.

Gli utenti che utilizzano il social listening a livello globale erano per lo più social media manager e data analyst ma, secondo il report di Talkwalker “Lo stato delle PR nel 2020”, tra questi utenti emerge che il 33% è costituito da figure quali PR account manager, executive, coordinator, director, e vice president. Questo è un dato molto interessante per capire come si sta sviluppando la industry, cercando di massimizzare il potenziale del social listening per diverse figure e dipartimenti. Un dato altrettanto interessante e sorprendente è il fatto che solo l’8% dei C-level a livello globale utilizzano strumenti di social listening, nonostante crisis e reputation management siano casi d’uso fondamentali per la loro posizione nella PR industry.

Infine, anche l’influencer marketing, che arriverà a valere 10 miliardi di dollari nel 2020, è stato identificato dagli intervistati come parte integrante dell’offerta PR. Talkwalker ha chiesto ai professionisti marcomm con che tipologia di influencer collaborano, in che modo e quali metriche utilizzano per misurare il ROI di queste collaborazioni. Uno dei dati più interessanti è che, al contrario di quanto si tende a pensare, il settore non è dominato da Instagram bensì da Facebook. Infatti, il 70% dei professionisti a livello globale ha indicato Facebook come canale principale per le campagne di influencer marketing B2C, contro il 68% di Instagram. Questo gap aumenta se si prendono in considerazione le collaborazioni per campagne B2B, con il 65% delle collaborazioni su Facebook e il 53% su Instagram. Gli esperti PR si sono dimostrati anche molto reattivi all’adozione della piattaforma relativamente nuova Tik Tok, che è stato inserito nella strategia di comunicazione del brand dall’8% degli intervistati, per quanto riguarda le campagne B2C, e dal 4% per quanto riguarda le campagne B2B.

“Negli ultimi anni il panorama delle PR ha dovuto cambiare costantemente per rimanere al passo con le evoluzioni del mondo digitale. Questo è un momento di grande fermento nella industry, dove emergono ogni giorno nuove opportunità e nuovi potenziali che una social PR strategy può offrire”, afferma Robert Glaesener, Global CEO di Talkwalker.

“La nostra missione è quella di offrire ai professionisti delle PR e della Comunicazione una soluzione all’avanguardia nel campo della social listening e analytics, che gli permetta di di proteggere e rafforzare la reputazione del loro brand su scala globale. Recentemente abbiamo lanciato la nuova featureConversation Clusters, un sistema per visualizzare i dati in modo più efficaci, che analizza e mappa in cluster tematici i milioni di conversazioni legate ad un argomento, permettendo ai marketer e ai professionisti delle Pr di individuare facilmente le notizie, i trend e i contenuti più caldi da poter sfruttare al meglio nelle loro campagne di comunicazione.”

Per accedere al report completo e avere maggiori dettagli sui dati relativi alle diverse regioni analizzate, potete scaricare la ricerca di Talkwalker “Lo stato delle PR nel 2020” a questo link.

 

A proposito di fiducia, i risultati di Trust Barometer 2020

L’Edelman Trust Barometer 2020 rivela che, nonostante una forte economia globale e quasi la piena occupazione, la maggior parte degli intervistati in ogni mercato sviluppato non crede che tra cinque anni staranno meglio, e il 56% crede che il capitalismo nella sua forma attuale faccia più male che bene al mondo.
Viviamo in un paradosso della fiducia”, ha affermato Richard Edelman, CEO di Edelman. “Da quando abbiamo iniziato a misurare la fiducia 20 anni fa, la crescita economica ne ha favorito un aumento. Questo continua in Asia e in Medio Oriente, ma non nei mercati sviluppati, dove la disparità di reddito nazionale è ora il fattore più importante. Le paure stanno soffocando la speranza e i presupposti sul lavoro che porta alla mobilità verso l’alto non sono più valide”.
Le preoccupazioni sono ampie e profonde. La maggior parte dei dipendenti (83 per cento) a livello globale sono preoccupati per la perdita di posti di lavoro dovuta all’automazione, a una recessione incombente, alla mancanza di formazione, a una concorrenza straniera meno costosa, all’immigrazione e alla gig economy. Il cinquantasette percento degli intervistati si preoccupa di perdere il rispetto e la dignità di cui un tempo godeva nel proprio Paese. Quasi due su tre ritengono che il ritmo del cambiamento tecnologico sia troppo rapido. E non esiste una verità concordata: i 76 percento afferma di essere preoccupato per l’uso di fake news come arma.
Un numero record di Paesi sta vivendo un divario di fiducia di massa di tutti i tempi, che si sta diffondendo dai Paesi sviluppati a quelli in via di sviluppo. A livello globale, esiste un divario di 14 punti tra il pubblico informato (65) e la massa (51). Vi sono lacune a due cifre in 23 mercati, tra cui Australia (23 punti), Francia (21 punti), Arabia Saudita (21 punti), Germania (20 punti), Regno Unito (18 punti) e Spagna (17 punti).
Il business (58 per cento) è l’istituzione più affidabile, assumendo il ruolo guida nella governance globale. Le recenti decisioni della Business Roundtable di approvare un modello di stakeholder per le multinazionali americane, l’avvio di Business for Inclusive Growth incentrato su salari equi da parte delle multinazionali francesi e Business Ambition per 1,5 ° C riconoscono la più ampia responsabilità della società.
“Il business ha fatto irruzione nel vuoto lasciato dal governo populista e partigiano”, ha affermato Edelman. “Non può più essere come prima, con un focus esclusivo sui rendimenti degli azionisti. Con il 73 percento dei dipendenti che afferma di voler avere l’opportunità di cambiare la società e quasi i due terzi dei consumatori che si identificano come acquirenti motivati, i CEO comprendono che il loro mandato è cambiato”.
Gli amministratori delegati dovrebbero guidare il fronte. Il 92 per cento dei dipendenti afferma che gli amministratori delegati dovrebbero parlare delle questioni del giorno, tra cui la riqualificazione, l’uso etico della tecnologia e la disparità di reddito. Tre quarti della popolazione generale ritiene che gli amministratori delegati dovrebbero assumere un ruolo guida nel cambiamento invece di aspettare che il governo lo imponga.

“Le aspettative delle persone nei confronti delle istituzioni ci hanno portato a evolvere il nostro modello per misurare la fiducia”, ha affermato Edelman. “La fiducia oggi è concessa su due attributi distinti: competenza (mantenere le promesse) e comportamento etico (fare la cosa giusta e lavorare per migliorare la società). Non si tratta più solo di ciò che fai, ma anche di come lo fai”.
I risultati di quest’anno rivelano che nessuna delle quattro istituzioni è considerata sia competente sia etica. Il business si colloca più in alto in termini di competenza, con un enorme vantaggio di 54 punti sul governo (64 per cento contro 10 per cento). Le ONG guidano il comportamento etico nei confronti del governo (un divario di 31 punti) e delle imprese (un divario di 25 punti). Il governo è percepito come incompetente e non etico, ma ha fiducia più del doppio rispetto alle imprese per proteggere l’ambiente e colmare il divario di disparità di reddito. I media sono anche considerati incompetenti e non etici: la maggioranza (57 per cento) non crede che i media facciano un buon lavoro nel differenziare opinioni e fatti, ma li trova preziosi per la copertura delle notizie (58 per cento).

“Dopo aver monitorato 40 aziende globali nell’ultimo anno attraverso il nostro framework Edelman Trust Management, abbiamo appreso che driver etici come integrità, affidabilità e finalità guidano vicino al 76 per cento del capitale fiduciario delle imprese, mentre le competenze rappresentano solo il 24 per cento”, Ha dichiarato Antoine Harary, presidente di Edelman Intelligence. “La fiducia è innegabilmente legata al fare ciò che è giusto. La battaglia per la fiducia sarà combattuta nel campo del comportamento etico”.

Digital Jobs: la scommessa della valorizzazione economica

Di qui al 2020 crescerà di oltre 71.000 unità la domanda di cosiddetti digital jobs (IT, social & digital marketing e industria 4.0), ma si tratta di professioni remunerate ancora sotto la media.
Se si guarda ai trend, appare evidente come l’IT abbia una dinamica di sviluppo molto più lenta rispetto agli altri due gruppi, dove i profili del social & digital marketing crescono addirittura a velocità tripla rispetto al mercato.
Sono questi alcuni dei dati emersi dalla Digital Job salary Guide realizzata da Spring Professional, società di The Adecco Group specializzata nella ricerca, selezione e valutazione dei profili di middle management, in collaborazione con Job Pricing.
Lo studio raccoglie indicatori di mercato da fonti ufficiali e qualifica la retribuzione di un panel di professioni, a partire da un campione rappresentativo del mercato italiano di oltre 400.000 osservazioni qualificate.

Dall’analisi emerge che, seppure la stima del fabbisogno di profili ICT per il periodo 2018- 2020 è in una forbice tra 62.000 e 98.000 unità, di cui solo 17.000 dovute a sostituzioni di persone già in forza, i dati relativi a RAL media mostrano che gli stipendi per questo tipo di professionalità sono stabili.

Se la RAL media dei quadri italiani è di oltre 54 mila euro, quella nel settore IT si ferma a 52 mila. Il mondo dell’industria 4.0 arriva a remunerazioni di poco superiori a 53 mila euro, mentre per i quadri che operano nel social e digital marketing si hanno retribuzioni più basse in media di oltre 3 mila euro annui.
Diversa, seppur parzialmente, la situazione per gli impiegati. L’Industry 4.0 distanzia in modo molto significativo gli altri due gruppi e gli impiegati di questo segmento appaiono sopra la media di mercato con una retribuzione di oltre 34 mila euro.
Anche i trend di crescita degli ultimi 4 anni vedono i profili digital jobs crescere meno della media italiana, in particolare per impiegati e quadri nel segmento IT. Addirittura in calo la retribuzione per quadri nell’industria 4.0, mentre in crescita più della media nazionale sono i profili di social & digital marketing sia in funzione quadro che impiegato (+3,4% e +3,2%).
Ma quali sono i profili che il mercato valorizza maggiormente rispetto a ciascun gruppo professionale? Nel gruppo IT la professione più remunerativa è il Solution Manager. Il differenziale retributivo, rispetto alla media (valore medio del gruppo di riferimento =100), varia da un +55,4% al vertice ad un -14,6% in fondo alla classifica (help desk specialist). Per quel che concerne il social & digital marketing in testa troviamo il Product Manager, che ha una retribuzione superiore del 90,6 % rispetto alla media, mentre in fondo alla classifica il delta rispetto al valore medio è del 9,0% per la figura di Content editor.
Infine, nel campo dell’industry 4.0, il ruolo meglio retribuito risulta essere l’Automation Engineer. Al vertice della graduatoria la retribuzione è maggiore rispetto a quella media del +45,3%. In fondo è inferiore del -4,5% (progettista).
A livello globale tutti i settori economici stanno evolvendo in ottica “digital” e sono interessati – e lo saranno sempre più in futuro – dall’adozione di nuove tecnologie, che porteranno alla comparsa di nuove professioni e alla trasformazione, se non addirittura alla scomparsa, di molte di quelle che conosciamo oggi – ha dichiarato Francesco Manzini, Director di Spring Professional. “Eppure i Digital Jobs, sono ancora poco valorizzati in termini retributivi. Non si tratta, certamente, di un mercato con dinamiche uniformi nelle sue componenti principali ed esso è influenzato dal grado di digitalizzazione dell’economia e della società, in Italia ancora troppo bassa. Il Paese risulta al 25° posto nella zona UE per digital transformation, circa il 40% delle imprese non ha ancora un programma per la trasformazione digitale e secondo Eurostat l’86,1% delle imprese ha un livello di Digitalizzazione “basso” o “molto basso. Inoltre se gli stipendi continuano ad essere così bassi, i migliori talenti che potrebbero aiutare le imprese nel salto culturale verso la digitalizzazione andranno all’estero a mettere a frutto le proprie competenze”.

A Roma le nuove frontiere del giornalismo digitale

L’italiano istituzionale e la comunicazione pubblica

“La lingua italiana può aiutare la trasformazione digitale del nostro Paese e, in particolare, può favorire la comunicazione delle amministrazioni pubbliche. L’Italiano istituzionale è il modello di lingua per i testi ufficiali delle organizzazioni, per comunicare in modo chiaro, comprensibile, preciso e accessibile al maggior numero di persone e di dispositivi digitali. Nel volume sono descritte le caratteristiche dei linguaggi istituzionali delle PA e sono fornite indicazioni su come progettare testi istituzionali mediali accessibili. È una guida per i professionisti della comunicazione che devono sviluppare abilità di scrittura nel contesto di attività d’informazione e comunicazione del settore pubblico”.  

L’italiano istituzionale è la lingua chiara e comprensibile delle leggi, degli atti amministrativi, delle sentenze, degli avvisi pubblici, dei moduli e delle bollette delle tasse da pagare, delle notizie dei tanti media delle istituzioni, dai siti web ai social. Una lingua che mette in comunicazione facilmente le istituzioni tra loro e con i cittadini. Una lingua che varia a seconda dei contesti comunicativi e degli scopi dell’istituzione che comunica: passando dall’italiano tecnico dei linguaggi speciali del diritto e dell’amministrazione a quello più semplice dei linguaggi mediali che utilizzano linguaggi comunicativi del giornalismo e della pubblicità. L’italiano istituzionale per la comunicazione pubblica è tutto questo: una lingua scritta e parlata dalle istituzioni che la codifica digitale e mediale sta trasformando, arricchendosi non solo con l’ipertestualità, l’indicizzazione e la crossmedialità ma anche con l’interoperabilità tra sistemi informativi, l’interazione con il pubblico e l’ibridazione dei linguaggi. Un italiano usabile da istituzioni capaci di evolversi e di fare evolvere il web 3.0 in 4.0 e oltre.

La buona padronanza della lingua italiana è una competenza chiave per istituzioni e aziende. È una soft skill per la formazione di comunicatori e di manager per i quali il buon uso della lingua italiana è funzionale a pensare, comunicare e migliorare le performance aziendali. Per molto tempo non solo i linguisti hanno considerato che la lingua parlata e scritta dalle amministrazioni pubbliche, il cosiddetto burocratese, fosse un ostacolo per buona amministrazione. Barriera per la trasparenza amministrativa, per l’accessibilità ai dati pubblici e ai documenti ufficiali. Il segno dei tempi in cui alle PA poco importa la leggibilità e la comprensibilità dei testi. Una PA per cui la reputazione non è un valore da perseguire attraverso relazioni pubbliche. Questi tempi non finiranno se non si punterà sulla formazione linguistica dei comunicatori. È tempo di formare professionisti della comunicazione e manager per i quali l’italiano istituzionale sia il modello di lingua per farsi capire da persone che non sono più solo utenti o contribuenti, ma “co-designer” che partecipano alle decisioni, co-progettando i servizi digitali, ridisegnando in base ai propri bisogni, organizzazioni accessibili a tutti, persone e dispositivi digitali.

Leggi e atti amministrativi scritti male e comunicati peggio sono più difficili da capire e dunque da rispettare. Alle istituzioni serve una lingua chiara per favorire la conoscenza delle disposizioni normative e facilitarne così l’applicazione. Una lingua semplice per favorire l’accesso ai servizi pubblici e per diffondere conoscenze allargate e approfondite su temi di rilevante interesse pubblico e sociale. Una lingua accessibile per favorire i processi interni di semplificazione delle procedure e di modernizzazione degli apparati, la conoscenza dell’avvio e del percorso dei procedimenti amministrativi. Una lingua utile a promuovere l’immagine delle amministrazioni, dell’Italia, in Europa e nel mondo, rendendo noti e visibili gli eventi d’importanza locale, regionale, nazionale ed internazionale. Queste sono le principali finalità della legge 150/00 (art. 1) che disciplina le attività d’informazione e comunicazione nelle amministrazioni pubbliche. Una legge che molti vorrebbero cambiare quando, invece, andrebbe semplicemente fatta rispettare. È una norma che delinea chiari principi e finalità. Una norma che ha istituzionalizzato strutture per l’informazione e la comunicazione nelle PA in cui devono operare diversi professionisti con differenti specializzazioni che le evoluzioni tecnologiche trasformano giorno per giorno. La legge 150/00, se applicata e rispettata, creerebbe tanti posti di lavoro per chi si occupa di comunicazione, relazioni pubbliche e giornalismo.

Il mio libro è una guida per i professionisti della comunicazione che devono sviluppare abilità di scrittura nel contesto di attività d’informazione e comunicazione del settore pubblico.  Professionisti capaci di usare, trasmettere e innovare l’italiano istituzionale come modello di lingua per le comunicazioni ufficiali delle istituzioni del nostro Paese.