Crescita mondiale: segnali incoraggianti (ma non troppo)

Crescita infelice?

Segnali incoraggianti, ma non troppo, per l’economia mondiale. Il 25 luglio 2023 il Fondo monetario internazionale (FMI) ha pubblicato l’aggiornamento al World Economic Outlook, rivedendo le stime di aprile. Le revisioni lasciano ben sperare, sotto diversi punti di vista: la crescita del PIL mondiale prevista per il 2023 sale dal 2,8% di aprile al 3% di oggi, mentre quella per il 2024 resta stabile al 3%. Buone notizie anche per l’inflazione, che a livello globale dovrebbe scendere dall’8,7% del 2022 al 6,8% stimato per quest’anno (a fronte del 7% anticipato ad aprile).

Cosa spiega questo repentino miglioramento? Tra i fattori citati spiccano la stabilizzazione del sistema bancario dopo le difficoltà di inizio anno e un mercato del lavoro sorprendentemente forte. L’economia mondiale sembra dunque aver imboccato la strada giusta…

Non è tutto oro quel che luccica

…ma il traguardo resta lontano. I miglioramenti nel breve periodo, per quanto innegabili, arrivano infatti dopo anni drammatici, in cui la pandemia e soprattutto la guerra in Ucraina hanno avuto pesanti ripercussioni sull’economia globale. Il peso di questi fattori si vede confrontando le stime pubblicate prima e dopo l’invasione e continua a farsi sentire, con tassi di crescita che rimangono bassi (soprattutto in Europa e, in particolare, in Germania, l’unico paese del G7 che il FMI vede in recessione quest’anno).

I motivi di preoccupazione per il futuro non mancano, a cominciare dalla questione dei tassi di interesse. Con la pubblicazione di oggi, il FMI elogia le politiche restrittive attuate da vari Paesi per placare l’inflazione, ancora a livelli eccessivi. Allo stesso tempo, però, nota che un continuo innalzamento dei tassi di interesse potrebbe comportare un rallentamento dell’attività produttiva. Una valutazione che potrebbe avere risvolti politici?

Ricchi e poveri

Già, perché nei prossimi giorni è previsto un ulteriore aumento dei tassi di interesse da parte di Banca Centrale Europea, Federal Reserve e Bank of England. E, benché combattere l’inflazione resti una priorità, gli effetti collaterali sulla crescita andranno attentamente valutati. Questo vale soprattutto per l’amministrazione Biden che, dopo anni di crescita sostenuta negli Stati Uniti, vuole evitare il rischio di presentarsi alle elezioni del 2024 con una performance economica deludente.

Se i riflettori restano puntati sulle economie avanzate, non bisogna rischiare di perder di vista quello che sta succedendo in quelle emergenti. Il differenziale di crescita tra i due gruppi di Paesi si è ridotto: in altri termini, i Paesi più poveri impiegheranno più tempo a “recuperare lo svantaggio” rispetto ai più ricchi. Insomma, il mondo di domani potrà pur essere un mondo che cresce, ma sempre all’insegna della disuguaglianza.

 

Fonte: Ispi

L’inverno demografico italiano e le sue conseguenze

Per tutta la storia dell’umanità, fino a poche generazioni fa, il rinnovo generazionale era garantito da una elevata fecondità (attorno o oltre i 5 figli in media per donna) che compensava alti rischi di morte in tutte le età della vita. Il passaggio da tale regime a quello contemporaneo viene chiamato “transizione demografica”. Teoricamente tale transizione dovrebbe portare a un nuovo equilibrio con un tasso di fecondità attorno a due figli per donna. Se, infatti, i rischi di morte dalla nascita fino all’entrata in età anziana scendono vicino a zero, bastano in media due figli per sostituire i due genitori. Tale valore rappresenta pertanto la soglia di equilibrio nel rapporto tra generazioni (livello di rimpiazzo generazionale).

Nel caso la fecondità rimanga persistentemente al di sotto, le generazioni più giovani diventano via via meno numerose rispetto a quelle precedenti e la popolazione va a declinare (e invecchiare). Sopra tale soglia, viceversa, la popolazione tende ad aumentare.

LE DINAMICHE DEMOGRAFICHE MONDIALI. I diversi ritmi di crescita demografica nelle varie aree del mondo dipendono dalla diversa fase in cui esse si trovano rispetto al percorso di transizione dall’alta alla bassa fecondità. La fecondità mondiale era ancora attorno a 5 alla metà del secolo scorso e risulta attualmente pari a 2,3 figli per donna. Tale dato, che nelle previsioni delle Nazioni Unite dovrebbe scendere vicino a 2 alla fine del secolo, è però il risultato di situazioni molto diverse nelle varie regioni del pianeta. Se ci sono ancora paesi con un numero medio di figli ben superiore alla soglia di rimpiazzo generazionale (in particolare l’Africa subsahariana ha attualmente un tasso di fecondità attorno a 4,5), sono oramai due terzi gli Stati del mondo scesi al di sotto. Questo secondo gruppo è in continuo allargamento. Non contiene più solo i paesi occidentali, il Giappone e la Corea del Sud, ma sempre più anche altri Stati, compresi i due giganti asiatici (Cina e recentemente India).

Un aspetto importante che risulta sempre più evidente dalle dinamiche di questo gruppo – diventato prevalente e destinato in prospettiva a inglobare tutto il mondo – è che le nazioni che scendono sotto il livello di equilibrio generazionale tendono a non risalire al di sopra ma ad assestarsi, in varia misura, al di sotto. Ciò nonostante, come molte ricerche confermano, il numero di figli ideale sia considerato generalmente pari a due. Questo significa che la transizione demografica non evidenzia, nel percorso finora osservato, il raggiungimento di un nuovo equilibrio. Nei paesi che in teoria l’hanno conclusa, la longevità continua a estendersi da una generazione alla successiva e la fecondità rimane sotto la soglia di rimpiazzo.

Il secondo gruppo di paesi potremmo dividerlo ulteriormente in tre gruppi, ben distinguibili anche all’interno della stessa Europa. Un primo gruppo sta riuscendo a mantenere la fecondità non troppo sotto i due figli per donna. Francia e Svezia sono i due casi più interessanti. Pur nella diversità dei due modelli di welfare, alla base c’è una continua attenzione alla conciliazione tra impegno lavorativo e responsabilità familiari. Il primo paese è stato, sinora, un esempio di solidità delle politiche familiari, mentre il secondo è un esempio di laboratorio in continua sperimentazione.

Un secondo gruppo è costituito dai paesi scesi molto sotto il livello di equilibrio generazionale ma poi risaliti. Vi rientra larga parte dell’Est Europa. Il caso più interessante è però quello della Germania. Come conseguenza degli squilibri prodotti nel tempo dalla denatalità, la componente giovane-adulta tende a ridursi. Gli effetti migliori sulle nascite sono, pertanto, quelli che si ottengono combinando le politiche familiari con la capacità di attrarre e gestire flussi migratori di persone in età lavorativa e riproduttiva. Nel decennio scorso la Germania è il paese che maggiormente ha agito su queste due leve e come conseguenza le nascite sono sensibilmente aumentate, mentre nei paesi dell’Est Europa sono state stabili o con variazioni limitate.

Il terzo gruppo è, infine, rappresentato dai paesi in cui la fecondità rimane persistentemente bassa. Vi rientrano i paesi dell’Europa mediterranea e in particolare l’Italia.

 

ITALIA, IL RISCHIO DEMOGRAFICO. L’Italia è entrata in crisi demografica tra la fine degli anni Settanta e la fine degli anni Ottanta, quando il numero medio di figli per donna è crollato da oltre 2 figli a meno di 1,5, andando poi a posizionarsi su livelli tra i più bassi al mondo. Risulta attualmente uno dei paesi che da più lungo tempo si trovano su livelli così bassi. Le dinamiche recenti, in particolare dopo la grande recessione del 2008, sono state poi ulteriormente peggiorative. Il tasso di fecondità è passato da 1,44 nel 2010 a 1,27 del 2019. Il dato è poi sceso a 1,25 negli anni della pandemia.

L’esito complessivo è un esaurimento della capacità endogena di crescita della popolazione italiana, entrata dal 2014 in fase di declino, con un saldo naturale negativo non più compensato nemmeno dall’immigrazione. La questione che ora si pone non è far tornare a crescere la popolazione (destinata in ogni caso a diminuire), ma quanto lasciare aumentare gli squilibri interni tra generazioni. L’Italia è stato il primo paese al mondo in cui i residenti under 15 sono scesi sotto gli over 65. Quest’ultima fascia d’età ha ora raggiunto l’entità degli under 25 ed entro il 2040 (forse già entro il 2035) supererà anche gli under 35.

L’Italia sarà, inoltre, il primo Stato del vecchio continente a portare entro questo decennio l’età mediana della popolazione oltre il traguardo dei 50 anni (rendendo così prevalenti nella penisola le persone con età superiore al mezzo secolo). Se oggi ci troviamo con un rapporto tra over 65 e popolazione attiva tra i peggiori al mondo, tale valore potrebbe raddoppiare entro il 2050. Secondo le stime ocse (pubblicate nel report “Working Better with Age” nel 2019) siamo il paese con maggiore rischio di trovarsi a metà di questo secolo con un rapporto di 1 a 1 tra pensionati e lavoratori.

 

LE CONSEGUENZE DELLO SQUILIBRIO TRA GENERAZIONI. Per avere un’idea delle implicazioni degli squilibri nel rapporto tra generazioni, supponiamo che esistano nel mondo due paesi. Il primo ha un numero medio di figli per donna che si mantiene nel tempo poco sotto 2. Di conseguenza, pur con un saldo migratorio positivo, la popolazione non cresce ma nemmeno diminuisce (o si riduce molto lentamente). Ogni nuova generazione ha una consistenza sostanzialmente in linea con quelle precedenti. L’invecchiamento della popolazione risulta moderato e determinato di fatto solo dall’aumento della longevità. Diventa quindi più facile gestire tale processo come opportunità da cogliere, investendo sulle condizioni di una lunga vita attiva.

Il secondo paese ha invece una fecondità sotto 1,5. Di conseguenza la popolazione è in sensibile diminuzione: il saldo tra nascite e decessi diventa sempre più negativo e l’immigrazione non riesce più a compensarlo. A fronte di una popolazione anziana che aumenta il proprio peso, la riduzione della natalità rende sempre più debole la consistenza delle nuove generazioni. Si indebolisce la forza lavoro e peggiora fortemente il rapporto tra anziani e popolazione attiva, con conseguente maggiore difficoltà, rispetto al primo paese, sia di produrre ricchezza e benessere, sia di rendere sostenibile e far funzionare il sistema di welfare pubblico. Tutto questo vincola al ribasso anche le risorse che possono essere investite sulle nuove generazioni, in particolare sulla formazione, sugli strumenti di transizione scuola-lavoro, sull’autonomia e la formazione di una propria famiglia. Sempre più giovani preferiranno spostarsi nel primo paese, che fornisce migliori opportunità di realizzazione sia professionale che di vita.

Di fronte a squilibri demografici che aumentano, la stessa immigrazione diventa una leva sempre più debole: un territorio che non offre adeguate condizioni di valorizzazione e di sostegno progettuale agli autoctoni difficilmente diventa attrattivo per giovani dinamici e qualificati dall’estero, i quali tenderanno piuttosto a scegliere il primo paese. In un contesto di questo tipo rischiano di aumentare anche tensioni e diseguaglianze sociali, rendendo più instabile lo stesso quadro politico.

L’Italia è tra le economie mature avanzate che maggiormente si avvicinano a questa situazione. Va aggiunto che le nascite italiane non sono solo a livello basso, ma anche posizionate su una scala mobile che le trascina ulteriormente in giù. Questa scala mobile è rappresentata dalla struttura per età della popolazione, la quale, per conseguenza della denatalità passata, è in progressivo sbilanciamento a sfavore delle generazioni giovani-adulte (la fonte di vitalità di un paese). Più il tempo passa, più diventa difficile (e se continua così tra pochi anni anche impossibile) invertire la curva negativa delle nascite.

I TRE OSTACOLI ALLA SCELTA DI FARE FIGLI. Ovviamente nessuno si convince ad avere figli per l’esigenza di evitare gli squilibri demografici. Tali considerazioni non entrano nel processo decisionale di coppia, ma dovrebbero entrare nelle scelte collettive. Se una comunità considera la nascita di un figlio non solo come costo e complicazione individuale a carico dei genitori, ma come valore collettivo che rende più solido il futuro comune, tenderà a investire su strumenti che mettono chi desidera un bambino nella condizione non solo di averlo ma di accedere anche alle migliori opportunità di crescita.

È utile osservare che ciò che distingue l’Italia dal resto d’Europa non è il numero di figli desiderato (attorno a 2), ma quello realizzato (pari a 1,25). Dal confronto con altri paesi europei con fecondità più elevata, a parità di numero di figli desiderati quello che si nota è la maggior presenza al sud delle Alpi di tre principali scogli. Superarli va nella direzione di favorire la realizzazione dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, oltre che mettere le persone nelle condizioni di realizzare i propri progetti di vita.

Il primo scoglio è relativo al tempo di arrivo del primo figlio ed è da ricondurre alle difficoltà dei giovani nella transizione scuola-lavoro e nel conquistare una propria autonomia dalla famiglia di origine. Intervenire su questo punto critico è coerente con la realizzazione degli Obiettivi 4 e 8 (“fornire una educazione di qualità equa e inclusiva” e “occupazione piena e produttiva e un lavoro dignitoso per tutti”).

Il secondo scoglio è quello che ostacola il percorso oltre il primo figlio. Se con la nascita del primogenito ci si trova in difficoltà ad armonizzare l’impegno esterno lavorativo e quello interno alla famiglia (per carenza di strumenti di conciliazione e di misure a favore della condivisione tra madri e padri), difficilmente si rilancia con la nascita di altri figli. Superare questi limiti va nella direzione della realizzazione dell’Obiettivo 5 (“favorire l’uguaglianza di genere”).

Infine, il terzo scoglio è da ricondurre al rischio di povertà di chi sceglie di avere un figlio. Esiste in Italia una forte relazione tra età della persona di riferimento della famiglia e povertà assoluta. Questa relazione si è andata rafforzando e poi consolidando nel tempo. In particolare, per tutto il decennio pre-pandemia il rischio di povertà è stato quasi il doppio tra gli under 35 rispetto agli over 65. A essere lasciata esposta, quindi, a condizioni di vulnerabilità economica è proprio la fase in cui si è chiamati a mettere su basi solide i propri progetti di vita. Un altro dato di rilievo che caratterizza la povertà in Italia è lo stretto legame con il numero di figli. I dati riferiti al 2019, peggiorati poi con la pandemia, mostrano come la povertà assoluta sia oltre il triplo per chi ha tre bambini rispetto a chi si ferma a uno. Contenere questo rischio va nella direzione degli Obiettivi 1 e 10 (“porre fine a ogni forma di povertà” e “Ridurre le diseguaglianze sociali”).

La meno solida posizione nel mercato del lavoro dei giovani italiani, le maggiori difficoltà a conciliare il lavoro di entrambi i membri della coppia con la cura dei figli, le più deboli e frammentate misure di sostegno alle famiglie con bambini, rendono relativamente più rilevante rispetto alla media europea l’impatto di una nascita sull’economia familiare. Anche il costo dei figli tende comunque a essere maggiore, ma soprattutto più protratto nel tempo per la maggiore permanenza nella famiglia di origine.

 

INVERTIRE LA TENDENZA PRIMA CHE SIA TROPPO TARDI. Arrivati all’impatto della pandemia si tratta ora di capire se l’Italia – al netto di un rimbalzo per il recupero di progetti di vita congelati durante la crisi – si porrà in continuità con il passato o se la combinazione tra le misure contenute nel PNRR e nel Family act, adeguatamente implementate su tutto il territorio, darà la spinta necessaria per l’entrata in una fase nuova, di solida inversione di tendenza prima che sia definitivamente troppo tardi. Per riuscirci, partendo dai livelli più bassi in Europa e con una struttura demografica più compromessa, è necessario passare dall’essere stati nel decennio scorso i peggiori a porsi ora come l’esempio da seguire nelle politiche familiari e per le nuove generazioni.

Non è questione di una singola misura, serve un approccio sistemico e integrato. L’aumento delle nascite, dell’occupazione giovanile e della partecipazione femminile, assieme a una immigrazione con possibilità di adeguata integrazione, convergono in modo coerente a portare l’Italia verso lo scenario più alto tra quelli previsti dall’Istat all’orizzonte del 2050, rafforzando le condizioni di sviluppo inclusivo e sostenibile. Viceversa, la depressione ulteriore delle nascite (scenario più basso) si associa anche a persistenti difficoltà dei giovani a formare una propria famiglia, a una bassa conciliazione nelle coppie tra famiglia e lavoro, al rischio di povertà delle famiglie con figli.

 

Fonte: ASPENIA

Settore Orafo-Argentiero-Gioielliero gennaio-maggio 2022

COMUNICATO STAMPA

Export a +36,5% grazie alla locomotiva USA e +4% l’occupazione ma il raddoppio dei costi dell’energia rischia di spiazzare i prodotti rispetto alla concorrenza internazionale

Milano, settembre 2022 – Sulla base delle elaborazioni effettuate dal Centro Studi di Confindustria Moda su dati ISTAT per Federorafi, nei primi cinque mesi del 2022 il settore orafo-argentiero-gioielliero prosegue nel sentiero espansivo e registra una crescita su base tendenziale pari al +36,5% delle esportazioni; l’export si porta, dunque, a poco meno di 4 miliardi di euro, guadagnando un miliardo circa rispetto al medesimo periodo dello scorso anno. Inoltre, nel caso dell’export, si rileva una lieve accelerazione rispetto al primo trimestre chiusosi, si ricorda, a +31,9%. Del resto, le vendite settoriali effettuate nel solo mese di maggio presentano un aumento del +63,7% rispetto al maggio 2021. A confronto con il gennaio-maggio 2019 la crescita risulta altresì molto vigorosa, ovvero pari a +40,3%, corrispondente in termini assoluti a 1,15 miliardi. Il saldo commerciale di periodo ammonta a quasi 3,2 miliardi di euro e supera, similmente alle vendite oltreconfine, di oltre 1 miliardo l’avanzo del medesimo periodo 2021.

Il comparto preponderante (84,1% dell’export qui considerato), ovvero l’oreficeria/gioielleria in oro, presenta una dinamica delle vendite estere migliore della media settoriale, crescendo del +40,5% nei primi cinque mesi dell’anno; la gioielleria in argento sperimenta un incremento dell’export contenuto al +4,4%, mentre quella in metalli placcati, che tuttavia non arriva a 30 milioni di euro, cresce quasi del +150,0%. In termini di quantità, l’export di queste tre merceologie segna una dinamica altrettanto positiva, pari al +11,1% sul medesimo periodo del 2021; pur tuttavia, se rispetto al gennaio-maggio 2020 la crescita raggiunge il +72,5%, resta al di sotto del -1,8% se paragonata con i primi cinque mesi del 2019.

Oltre che per linea di prodotto, con riferimento al settore complessivamente inteso, nel periodo in esame si mantiene molto favorevole l’evoluzione dell’export nei principali mercati di destinazione del settore, pur su tassi di entità differente; unica eccezione è costituita da Hong Kong. Da gennaio a maggio 2022 gli Stati Uniti, confermati in prima posizione come lo scorso anno, sperimentano un aumento del +24,9% rispetto al medesimo periodo del 2021 (+115 milioni circa in valore assoluto); tale mercato assorbe il 14,4% dell’export settoriale totale. Al secondo posto torna la Svizzera, scambiandosi con gli Emirati Arabi nuovamente in terza posizione: tali mercati crescono rispettivamente del +31,4% e del +23,3%. Una variazione molto consistente, nella misura del +123,8%, caratterizza le vendite settoriali destinate in Francia (+255,5 milioni di euro in valore assoluto); nel periodo in esame la Francia raggiunge quasi gli Emirati Arabi, come indica l’incidenza all’11,6% per entrambi. Quinta l’Irlanda, hub logistico-commerciale del settore di recente avvio. Di contro, nel periodo in esame perdono il -1,6% le vendite dirette ad Hong Kong (-3,4 milioni di euro), mentre la Cina, dopo aver sperimentato una variazione del +367,5% nel gennaio-maggio 2021, cede il -21,9% (cui corrispondono quasi -7,4 milioni di euro), portandosi dalla 18° alla 26° posizione; le esportazioni a Hong Kong sono pari a 201 milioni di euro, in Cina a 26,3 milioni nei primi cinque mesi del 2022.

Con riferimento ai maggiori distretti del settore (per i quali i dati sono disponibili solo per codice ATECO CM 32.1 e solo su base trimestrale), nel primo trimestre[1] del 2022 si registra una crescita delle vendite estere del +29,7%, in linea con la dinamica del +31,9% registrata per l’aggregato a livello nazionale nello stesso arco temporale. L’export di Arezzo (che incide per il 32,2% sul totale esportato dall’Italia) evidenzia una crescita tendenziale del +31,1%, mentre Vicenza raggiunge una dinamica pari al +38,4%, assicurando il 21,6% dell’export settoriale nazionale. Il fatturato estero di Alessandria non va oltre ad una variazione del +8,5%, mentre quello della vicina Torino sale del +26,0%. Andamento favorevole interessa anche le vendite oltreconfine della provincia di Milano, in aumento del +40,6%. Si ricordi che le suddette prime cinque province esportatrici coprono ben l’85,1% del totale nazionale.

La Presidente FEDERORAFI Claudia Piaserico, nel presentare i dati in occasione del recente Opening di VicenzaOro ha altresì sottolineato come anche a livello occupazionale si stia consolidando l’inversione di rotta, in quanto, secondo le fonti delle Camere di Commercio, gli occupati al 30 giugno 2022, in relazione con lo stock al 31/12/2021, risultano in aumento del +4,0% corrispondente a oltre mille lavoratori in più. Gli aumenti di maggior rilievo si rilevano in Toscana (36,8% del totale), in Piemonte (41,0%) e in Veneto (20,9%).

A fronte di questi dati positivi, anche sul comparto della gioielleria incombe la minaccia dell’escalation dei costi di tutte le voci di forniture e dei servizi dovute ovviamente all’incremento dei costi delle hard commodities come l’energia elettrica ed il gas che, di fatto, hanno provocato, rispetto allo scorso anno, un raddoppio dell’incidenza percentuale dei costi di queste voci rispetto al fatturato aziendale. Un incremento che sta erodendo i margini delle imprese che saranno quindi costrette a ribaltarlo sui listini rendendo meno competitivi i gioielli italiani rispetto alla concorrenza internazionale Extra-UE, ma anche Intra-UE, che può beneficiare di minori costi essendo in gran parte autosufficiente dal punto di vista energetico.

In ragione di ciò per la Presidente FEDERORAFI Claudia Piaserico occorre intervenire tempestivamente nella direzione già indicata dal Presidente di Confindustria Moda, Ercole Botto Poala, ovvero:

  • scorporare il prezzo dell’energia prodotta da fonti rinnovabili da quello dell’energia da fonti fossili per ridurre il prezzo medio e incrementare l’attrattività delle rinnovabili.
  • avere una quota nazionale di produzione da fonti rinnovabili a costo amministrato riservato all’industria manifatturiera, come fanno altri paesi in Europa, e intervenire sul costo della bolletta anche utilizzando risorse comunitarie.
  • supportare le aziende nell’investire in efficientamento energetico: le PMI non hanno gli strumenti per farlo in autonomia, perché sono richiesti investimenti importanti. Qui entra in gioco il PNRR che deve essere a portata di piccole imprese per avere un impatto concreto.
  • tutte le forze politiche devono spingere in maniera unitaria in Europa per fissare un tetto al prezzo dell’energia. Solo questo potrà evitare speculazioni che danneggiano tanto i cittadini quanto le aziende. Se non si dovesse riuscire a farlo a livello europeo, è importante riuscire a farlo a livello nazionale.
  • diversificare le fonti di approvvigionamento e aumentare la produzione interna di energia. Solo accrescendo la nostra indipendenza energetica, infatti, porremo le basi perché in futuro queste situazioni non ricapitino e favorire un ecosistema economico che sia davvero resiliente.
  • Infine, nel caso la situazione non dovesse stabilizzarsi nel breve periodo, è fondamentale prevedere sin da subito un piano di razionamento dell’energia. Questo è necessario per essere preparati a ciò che succederà, agendo di conseguenza e organizzandoci per tempo.

Fonte: Federorafi

 

Digital media trends 2022: la ricerca di Deloitte

Ferpi – la Federazione delle Relazioni Pubbliche Italiana – riassume i trend principali che sono emersi dal sondaggio di Deloitte sulle tendenze dei media digitali. Di seguito l’articolo completo.

Il report sulle tendenze dei media digitali di Deloitte si espande oltre il mercato statunitense nel 2022, rilevando trend anche da Brasile, Germania, Giappone e Regno Unito. I risultati del sondaggio di quest’anno rivelano significativi – e spesso sorprendenti – cambiamenti nel comportamento dei consumatori in tutto il mondo. Ecco alcune delle tendenze principali.

I problemi di mantenimento dei video in streaming continuano
Guardare la TV e i film a casa è rimasta la prima scelta di intrattenimento tra gli intervistati in generale, ma molti – soprattutto le generazioni più giovani – sono frustrati con i loro servizi. La generazione Z è la più concentrata sul controllo dei costi e sono tra quelli più propensi a cambiare servizio per usufruire di contenuti a condizioni più vantaggiose.
La ricerca di contenuti attraverso molti servizi e la perdita di contenuti quando lasciano un servizio sono state le principali lamentele.

I consumatori stanno divorando i contenuti generati dagli utenti (UGC)
Circa l’80% degli utenti statunitensi dei social media sono su questi siti almeno ogni giorno.
L’UGC è diventato un riempi-tempo; molti consumatori trovano irresistibile il flusso di video personalizzati alimentati da algoritmi, video gratuiti, di dimensioni ridotte che sono disponibili sempre e ovunque. Ed è in competizione per l’attenzione con altre attività di intrattenimento: negli Stati Uniti, circa la metà dice di guardare più contenuti generati dagli utenti rispetto a sei mesi fa, e la metà passa sempre più tempo a guardare UGC di quanto aveva pianificato – mentre il 70% della Gen Z ha difficoltà a staccarsi.

Gli influencer stimolano il commercio sui social in tutto il mondo
I creatori di contenuti popolari possono diventare influencer, utenti con un grande seguito i cui stili di vita e raccomandazioni di prodotti possono diventare potenti catalizzatori di vendite. Collaborare con gli influencer giusti può aiutare i marchi a raggiungere le comunità desiderate e, sempre di più, a vendere, vendere, vendere.
Gli influencer hanno peso in tutto il mondo: l’88% degli intervistati in Brasile segue un influencer, così come il 79% degli intervistati in Giappone. Negli Stati Uniti, un terzo (e più del 50% dei Gen Z e dei Millennials) dice che influenzano le loro decisioni di acquisto.

La frenesia del gioco è globale, sociale e inarrestabile
Il gioco/video gaming online sta entrando in una nuova fase di crescita e popolarità. Circa la metà dei giocatori negli Stati Uniti afferma che il gioco ha sottratto tempo ad altre attività di intrattenimento: più dell’80% dice di giocare frequentemente o occasionalmente e la metà dei possessori di smartphone gioca quotidianamente su uno smartphone. I giocatori della generazione Z e Millennial giocano di più (in media 11 ore e 13 ore a settimana, rispettivamente), ma la generazione X è vicina, con una media di 10 ore a settimana.
I numeri sono simili tra gli altri Paesi: la maggior parte degli intervistati nel Regno Unito (75%), Germania (78%), Brasile (89%) e Giappone (63%) gioca ai videogiochi frequentemente o occasionalmente.

Le esperienze di gioco confondono il mondo virtuale con quello reale
I videogiochi stanno aprendo la strada verso un futuro digitale ancora più personale e sociale, un futuro in cui la vita digitale e quella reale convergono. Circa la metà dei giocatori statunitensi dice che giocare li ha aiutati a rimanere in contatto con altre persone, mentre quasi il 60% dice che giocare li ha aiutati a superare un momento difficile. E il 61% dice che personalizzare il proprio personaggio di gioco o avatar li aiuta a esprimere sé stessi.
Man mano che le esperienze di gioco diventano sempre più sofisticate e multistrato, stanno costantemente confondendo i confini tra mondo reale e virtuale, avvicinandoci sempre di più alla promessa del Metaverso.

Fonte: Ferpi.it – Valentina Citati

La catena di approvvigionamento globale si è rotta. Ecco tutte le conseguenze per imprese e consumatori

Riparte l’Italia descrive lo scenario attuale della catena di approvvigionamento in questo momento di crisi. Di seguito l’articolo completo.

Gli eventi che si sono consumati in questi ultimi anni, a partire dalla pandemia fino alla guerra in Ucraina, hanno radicalmente trasformato il mondo e con esso la sua “supply chain”. Le catene di approvvigionamento globali moderne, attraverso le quali passano la maggior parte delle merci che usiamo per la nostra esistenza quotidiana, sono state progettate per essere economiche, ma non necessariamente resilienti. Fin dall’adozione dei container negli anni ’60, queste catene di fornitura si sono sempre più globalizzate e hanno governato il decentramento e l’approvvigionamento di un sistema industriale fortemente internazionalizzato.

Negli ultimi 50 anni rendere il trasporto transoceanico e transcontinentale economico e affidabile significava che la produzione poteva spostarsi ovunque i salari fossero più bassi. E questo, a sua volta, significava che la maggior parte delle fabbriche si spostava sul lato opposto del mondo, principalmente in Cina. Ma significava anche, soprattutto per tecnologie complicate come quelle degli smartphone, delle auto e dei computer, che quando i materiali venivano ridotti in parti, e poi in sottocomponenti e infine i prodotti finiti, essi potevano attraversare il mondo più volte.

Il sistema della global supply chain si è “rotto”

L’assemblaggio con parti provenienti da tutto il mondo ha reso il sistema industriale mondiale fortemente dipendente da tre caratteristiche del commercio globale che fino a pochi anni fa, venivano date per scontate. La prima è che le materie prime sarebbero sempre state economiche e ampiamente disponibili. La seconda, che le spedizioni sarebbero costate una frazione del valore delle merci in movimento. La terza che queste spedizioni sarebbero sempre state affidabili. La prima crepa a queste tre certezze si è vista con la guerra commerciale Usa-Cina del 2018. Poi la pandemia ha allargato le crepe.

Ora, le sanzioni contro la Russia, la continuazione della guerra commerciale con la Cina, i disastri naturali e i sistemi di produzione e di trasporto messi fuori uso dall’invasione dell’Ucraina, hanno cronicizzato i problemi e i guasti delle catene di approvvigionamento globalizzate. Per ovviare a questi problemi molte aziende si stanno sforzando di capire come rendere le catene di approvvigionamento più robuste aggiungendo più fabbriche, più fornitori e più fonti di materiali. Non è una deglobalizzazione, ma è un rimpasto costoso e dispendioso dei luoghi in cui le merci e i prodotti vengono realizzati e dei loro centri di smistamento.

Si è corso ai ripari col costoso approvvigionamento multiplo

Nella logistica, questo passaggio dalle catene di approvvigionamento alle reti è noto come “approvvigionamento multiplo”, spiega al Wall Street Journal Nathan Resnick, presidente e co-fondatore di Sourcify, un’entità che aiuta le aziende a trovare e gestire le fabbriche in Asia. Quella di avere un solo fornitore delocalizzato per la produzione di merci e componentistica è stata a lungo una pratica standard, ma a partire dalle più recenti guerre commerciali, le cose sono cambiate e più aziende, anche quelle di piccole e medie-dimensioni, sono state costrette a fare il duro lavoro di rivolgersi a più fabbriche e di sincronizzare diversamente i passaggi delle merci attraverso a questa rete.

Willy Shih è un professore dell’Università di Harvard che consiglia il Dipartimento al Commercio degli Stati Uniti su come puntellare le catene di approvvigionamento nazionali. In un suo recente saggio, Shih ha scritto come la pandemia sia stata un campanello d’allarme per i manager, e come il mondo sembra ora muoversi verso aziende e paesi che stanno trasferendo le catene di approvvigionamento all’interno dei blocchi commerciali regionali dei paesi politicamente alleati. Allo stesso tempo, le aziende stanno riconoscendo la loro vulnerabilità alle interruzioni dell’approvvigionamento e i governi si stanno concentrando verso l’autosufficienza e la salvaguardia dell’accesso ai beni chiave per motivi di sicurezza nazionale. In Cina la chiamano “doppia circolazione”.

Nell’Unione Europea, l’hanno battezzata “sovranità tecnologica”, in quanto si occupa principalmente di salvaguardare la sicurezza dei prodotti tecnologici. Negli Stati Uniti, la legislazione che si prefigge di rafforzare le catene di approvvigionamento nazionali, include i 52 miliardi di dollari dell’America Act, approvato ma non ancora finanziato, volto a riportare negli Stati Uniti la produzione dei microchip, che attualmente si è ridotta al 12% dal 40% del 1990. Ma quali sono i casi più evidenti dell’attuale crisi delle global supply chain?

I lockdown nei grandi porti cinesi 

Shenzhen è uno dei porti più trafficati della Cina. E serve un importante hub di produzione ed esportazione, che comprende il terminal di Yantian, il quale gestisce circa un quarto di tutte le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti: dall’elettronica, ai mobili, agli elettrodomestici e alle parti di automobili. Un focolaio di Covid-19 ha chiuso il terminal di Yantian per quasi un mese a giugno 2021, creando un arretrato di decine di migliaia di container, mentre decine di navi aspettavano settimane fuori Shenzhen per caricare.

Gli operatori hanno dirottato un certo numero di navi verso altri porti, che poi hanno creato colli di bottiglia nei porti californiani di Los Angeles e Long Beach. L’interruzione delle attività di terminal come quello di Yantian hanno finito per congestionare i traffici merci internazionali e hanno fatto lievitare i costi degli spedizionieri. Il prezzo per spedire un container marittimo dalla Cina alla California è salito del 386% rispetto a gennaio dello scorso anno.

Jay Duehring, che gestisce la logistica e il commercio per Specialized Bicycle Components, una società con sede in California che importa circa 1 milione di biciclette all’anno racconta: “Il nostro costo di trasporto è triplicato rispetto allo scorso anno e i tempi di consegna sono raddoppiati a quasi due mesi. I lockdown hanno comportato anche forti restrizioni per i camion che viaggiavano dentro e fuori di Shenzhen e anper quelli da Shenzhen a Hong Kong. Inoltre, anche a Shanghai, il più grande porto del mondo, ci sono state restrizioni ai camion”. Gli ultimi focolai di Covid hanno costretto alcuni colossi come Foxconn, Toyota e Tesla a tagliare la produzione.

Distretto finanziario di Shanghai in lockdown per 9 giorni 

Le autorità di Shanghai hanno annunciato da oggi 9 giorni di lockdown complessivi in più turni per il distretto finanziario cittadino di Pudong e per altre 9 aree. Il lockdown è stato deciso per consentire test di massa contro il Covid. Le persone delle aree colpite dovranno rimanere in casa e il trasporto pubblico sarà sospeso fino al primo aprile. Il blocco di Shanghai determinerà ulteriori “colli di bottiglia” nella catena di approvvigionamenti, visto che stiamo parlando di uno dei distretti industriali più vasti del mondo, da cui si riforniscono moltissime aziende in ogni parte del pianeta.

In pratica, se si blocca la Cina rallenta tutta la catena industriale globalizzata. E Pechino contro il Covid adotta la politica della “tolleranza zero” e cioè risponde alla pandemia con una politica del “pugno di ferro”, mettendo in lockdown milioni di cinesi. La strategia anti-Covid cinese non si basa sulle vaccinazioni, come in Occidente, ma sui lockdown. Il paese ha bassi tassi di vaccinazione tra gli adulti più anziani e molto meno letti ospedalieri di terapia intensiva pro capite rispetto alla maggior parte dei paesi industrializzati.

Una nuova variante

Un’estesa epidemia, o l’emergere di una nuova variante pericolosa potrebbe rapidamente sopraffare gli ospedali, soprattutto nelle aree rurali. Per questo le autorità ordinano blocchi e lockdown molto severi. In risposta anche a un singolo caso di Covid, i funzionari cinesi possono sigillare tutti gli ingressi di un negozio, di un edificio per uffici, di una fabbrica, di un centro congressi, o di un intero quartiere.

Ognuno all’interno dell’area delimitata deve rimanere al suo interno per diversi giorni in quanto tutti sono testati e inviati in isolamento se risultano contagiati dal Covid. In tutto il paese, vengono radunati e testati milioni di cittadini ogni giorno. Una simile politica a Shenzen ha bloccato fabbriche gigantesche come il colosso taiwanese Foxconn, che assembla il 70% di tutti gli iPhone di Apple, oppure gli stabilimenti per la produzione delle Toyota. A Shanghai, che conta 26 milioni di abitanti, negli ultimi tempi si sono concentrati circa il 60% dei casi di Omicron cinesi.

Rispetto all’Europa si tratta di un numero molto basso di contagi, ma la Cina, per il timore che d l’epidemia possa diffondersi nelle province più povere e nelle aree rurali, si è chiusa ugualmente a riccio. Xi ha recentemente affermato che la Cina dovrebbe ridurre al minimo le interruzioni per l’economia per “pagare il prezzo più basso”, tuttavia le autorità non hanno fermato la politica Covid zero. Di conseguenza, il paese più popoloso del mondo è isolato dal resto del mondo da più di due anni. Tutti gli arrivi internazionali sono soggetti a tre o quattro settimane di quarantena e il rilascio dei visti a stranieri diversi dai diplomatici si è quasi fermato.

Egitto, transito Canale di Suez costerà 15% in più

L’Egitto ha annunciato martedì che aumenterà le tasse di transito per le navi, comprese le petroliere, che passano attraverso il Canale di Suez, una delle vie d’acqua più importanti del mondo. L’Autorità del Canale ha indicato sul suo sito web che aggiungerà il 15% alle normali tariffe di transito per navi cisterna e per navi cariche di prodotti petroliferi, rispetto al 5% attuale. Questi aumenti entreranno in vigore dal 1° maggio e potrebbero essere rivisti o annullati in seguito, a seconda dell’evoluzione delle spedizioni globali. Insomma, a Suez la catena degli approvvigionamenti globali non si blocca ma diventa più costosa, contribuendo così all’aumento globale dell’inflazione.

La guerra in ucraina manda in tilt la global supply chain

L’amministratore delegato di Volkswagen, Herbert Diess ha spiegato al Ft che una guerra prolungata in Ucraina rischia di essere “molto peggio” per l’economia europea rispetto alla pandemia a causa delle interruzioni nella catena di approvvigionamento, della scarsità di energia e dell’inflazione. L’Ucraina fornisce il 70% del gas al neon, necessario per il processo di litografia laser utilizzato per produrre semiconduttori, mentre la Russia è il principale esportatore di palladio, necessario per produrre convertitori catalitici e di nickel, un materiale importante per le batterie di auto elettriche. Il blocco di queste materie prime avviene in due modi.

Attraverso le sanzioni occidentali, che vietano le importazioni di queste materie prime per isolare Mosca, oppure per il blocco dei porti ucraini del Mar Nero, finiti sotto assedio, o chiusi per i bombardamenti. Le forniture energetiche russe sono già state interrotte dagli Stati Uniti. Lo scenario peggiore emergerebbe se le forniture energetiche russe all’Europa venissero a loro volta interrotte, il che finora non è avvenuto. Jan Hatzius, capo economista di Goldman Sachs, stima che un divieto Ue sulle importazioni di energia dalla Russia causerebbe un contraccolpo del 2,2% al Pil e innescherebbe una recessione nell’Eurozona.

La crisi alimentare

Inoltre, la guerra in Ucraina ha sicuramente accelerato la crisi mondiale del cibo, che era già in atto prima del conflitto. Un bel po’ del grano, del mais e dell’orzo mondiale è intrappolata in Russia e in Ucraina a causa della guerra, dello stop di Mosca all’export di grano e del blocco dei porti sul Mar Nero, mentre una parte ancora più grande dei fertilizzanti mondiali è bloccata in Russia e Bielorussia. Il risultato è che i prezzi globali dei prodotti alimentari e dei fertilizzanti sono saliti alle stelle, prefigurando un aumento della fame nel mondo. L’allarme lo lancia l’Onu, secondo cui questo mese l’impatto della guerra sul mercato alimentare globale potrebbe spingere da 7,6 a 13,1 milioni di persone a morire di fame.

I prezzi delle materie prime

Qualche altra cifra? Dall’invasione dell’Ucraina del mese scorso, i prezzi del grano sono aumentati del 21%, quelli dell’orzo del 33% e quelli di alcuni fertilizzanti del 40%, perché la Cina e la Russia, che sono i maggiori produttori al mondo di fertilizzanti, hanno entrambi ridotto le loro esportazioni. Insomma, i prezzi delle materie prime sono volati dopo l’invasione della Russia. Il motivo? La maggior parte di queste materie prime non arriva in Europa ma va invece dai porti del Mar Nero a quelli del Medio Oriente e dell’Africa.

Tuttavia, diversi porti sono rimasti chiusi a causa della guerra, e l’infrastruttura terrestre dell’Ucraina è stata martellata dai proiettili russi. Risultato: le derrate ucraine e russe non sono partite a causa di queste interruzioni e i loro prezzi si sono gonfiati. E la situazione secondo gli esperti potrebbe ulteriormente deteriorarsi, poiché le aziende agricole ucraine, a causa dei bombardamenti, stanno per perdere le stagioni della semina e della raccolta. La Fao ha già avvertito che circa il 30% delle aree coltivate in Ucraina non daranno raccolti quest’anno a causa del conflitto, mentre la capacità di export della Russia rimane poco chiara a causa delle sanzioni internazionali.

Per saperne di più:

[Lo scenario] Il Financial Times: «La globalizzazione è finita, la produzione sarà locale. Ma i profitti crolleranno»

Fonte: Osservatorio Riparte l’Italia

I trend della comunicazione nel 2022

“Sono sette le macrotendenze che impatteranno sul mondo della comunicazione nel 2022 appena iniziato. A dirlo una ricerca del centro studi UNA – Aziende della Comunicazione Unite. Per ogni trend sono illustrati, inoltre, alcuni case study significativi.”

Secondo la ricerca, che si consiglia di leggere interamente tanto più perché presentata in uno stile snello ed efficace, sono 7 i trend da tenere sotto controllo per una comunicazione efficace.

1. I consumatori reclamano il controllo del proprio stile di vita

Il primo punto è connesso con gli effetti della pandemia che oramai da due anni ha rivoluzionato le nostre vite e ha portato, secondo una ricerca di Accenture, il 50% della popolazione a riconsiderare il proprio stile di vita. Questa esigenza di cambiamento unita alla nascita di nuovi servizi imposti dalle limitazioni dell’era pandemica si riflette sulle esigenze di comunicazione rispetto ai brand a cui si chiede sempre di più chiarezza e trasparenza nonché la capacità di fornire ai naviganti le informazioni davvero utili per le loro scelte valutando l’efficacia reale dei prodotti rispetto alle promesse.

2. Focus locale: il miglioramento parte da vicino

Il focus sulla dimensione locale, il senso di radicamento alla propria comunità di vicinato è da tempo contraltare della globalizzazione a livello mondiale ma ultimamente si è rafforzato con la chiusura di frontiere e le limitazioni di viaggi e spostamenti. Ciò si traduce online nella preferenza che i consumatori accordano a negozi e realtà locali e dirette e brand verticali più che generalisti.

3. Connessioni umane al centro: fisiche o digitali

La tecnologia come supporto (e non sostituto) delle relazioni umane: “piattaforme come Roblox e Fortnite sono diventate nuove frontiere sociali per le persone in modo trasversale alle generazioni”. Una sorta di Metaverso embrionale in cui le persone possano abitare gli spazi virtuali incontrando altri individui e i brand e stabilendo connessioni significative.

4. L’esperienza di acquisto diffusa

La nuova sfida per aziende e marchi sarà nell’offrire una esperienza di acquisto multicanale (sito di proprietà, e-commerce, piattaforme social e negozi fisici) che sia interconnessa e coerente in qualsiasi luogo avvenga.

5. Sostenibilità inclusa nel prezzo

L’attenzione alla sostenibilità da parte di consumatori sempre più esigenti e critici richiede ai brand la capacità di coinvolgerli attivamente nelle proprie attività e iniziative facendoli contribuire direttamente alla riduzione del proprio impatto ambientale.

6. Il brand purpose alla prova dei fatti

L’attenzione a quanto dichiarato: oramai è molto difficile per una azienda assumere impegni o posizioni su temi rilevanti e non offrire risultati misurabili di quanto effettivamente poi si siano tradotte concretamente.

7. Il valore della privacy

Cresce il valore della digital privacy da parte di utenti sempre più consapevoli che informazioni e servizi apparentemente gratuiti sono pagati al prezzo dei propri dati. Ciò si traduce però in opportunità comunicative per i brand che possono costruire reputazione e ottenere fiducia mostrandosi attenti e corretti nella gestione dei dati, assumendo la non condivisione dei dati come opzione di default (privacy by default), raccogliendo unicamente i dati realmente necessari all’erogazione del servizio e fornendo facile accesso ai propri dati condivisi (data control).

www.ferpi.it  

Il giornalismo partecipativo e il futuro della professione

Milano 29 dicembre 2021 – La digitalizzazione ha profondamente modificato il giornalismo. Non solo si sono moltiplicate le fonti di informazione, ma la notizia non è più di gestione esclusiva del giornalista. Il lettore non è più passivo ed è divenuto parte integrante del processo di diffusione dell’informazione. Stiamo vivendo l’era del giornalismo partecipativo, in cui l’audience ha una parte attiva in tema di raccolta, analisi, ma soprattutto di diffusione e veicolazione delle notizie, grazie ai social e ai mezzi di comunicazione digitali.

Il dato interessante non riguarda solo il modello di produzione delle notizie: il giornalismo partecipativo influenza anche la credibilità di una testata. Il grado di condivisione collettiva incide infatti sull’attendibilità di una notizia e soprattutto sulla reputazione di chi l’ha scritta, pubblicata e condivisa.

L’autorevolezza dei media non è quindi determinata solo dall’importanza che ha rivestito nella storia del giornalismo, ma viene sempre più influenzata dall’efficacia della gestione delle relazioni del pubblico, nella diffusione condivisa dei contenuti.

Il giornalismo digitale non potrà più prescindere dalla partecipazione attiva della sua audience nella stessa produzione dei contenuti.  Partecipazione che però ha avviato un altro processo: la velocità di consumo e la tempestività che impongono informazioni aggiornate 24 ore su 24, fruite su canali, digitali e non, molto diversi tra loro. Esigenze che hanno incrinato le fondamenta della cultura del giornalismo italiano.

I modelli di produzione, i canali di diffusione e le fonti di approvvigionamento delle notizie sono cambiati. Il giornalismo non è più territorio per pochi ed è un processo partecipativo. Tutto positivo? Domanda di difficile risposta.  La partecipazione “indiscriminata” genera anche problemi di affidabilità/veridicità delle fonti e sottolinea la necessità di competenze professionali per una corretta comunicazione.  Questioni tutte ancora irrisolte.

 

Articolo di Marco Provato

Il 50% del mercato dell’advertising è di Google, Facebook e Amazon

Groupm, media investment company del gruppo Wwp, ha pubblicato il report annuale “This Year Next Year: Global end-of-year forecast“, in cui traccia una previsione sulle performance dell’universo pubblicitario. Al di fuori dei confini cinesi, Amazon, Alphabet (società a cui fa capo Google) e Meta presidiano oltre il 50% della quota mondiale di advertising su tutti i mezzi di comunicazione, detenendo il controllo incontrastato del mercato pubblicitario.

Nel 2022, per l’advertising è prevista una crescita del 9,7%, con molte delle principali tendenze sproporzionatamente concentrate negli States, nel Regno Unito e in Cina, che insieme rappresentano circa il 70% di tutta la crescita dell’industria, nonostante costituiscano circa il 60% del mercato totale.

Il digitale traina l’intero comparto, rappresentando il 64,4% di tutta la pubblicità nel 2021 e, secondo la ricerca,  alla fine dell’anno la sua accelerazione raggiungerà il 30,5%.

Leggi la ricerca completa qui.

(Fonte: Pambianconews)

Il ruolo della comunicazione per la ripresa sostenibile

L’international Corporate Communication Hub ha presentato il secondo studio internazionale sul ruolo della comunicazione relativa a PNRR ed ESG.

(Roma 14 settembre 2021 – Comunicato stampa).

Negli ultimi 10 anni il volume delle conversazioni sui temi ESG è gradualmente aumentato in tutto il mondo con un balzo in avanti tra il 2019 e oggi. La Pandemia ha però peggiorato il tono delle conversazioni attorno agli ESG e le corporation. Se nel pre-pandemia oltre alla industry dei beni alimentari anche le aziende del settore estrattivo erano apprezzate per gli sforzi indirizzati alla sostenibilità e quindi godevano di un relativo sentiment positivo in rete, nel post pandemia solo il settore delle rinnovabili ha mantenuto un sentiment positivo.

È quanto emerge dallo studio internazionale “PNRR, ESG: il ruolo della comunicazione” dell’International Corporate Communication Hub (ICCH) realizzato dall’Università IULM sul database Mettle Capital, sviluppato da Università di Oxford, Cambridge e Sussex, presentato ieri a Roma alla Terrazza Associazione Civita e trasmesso sulla pagina Linkedin de Il Sole 24 Ore e sul sito dell’Università IULM. I ricercatori hanno raccolto i dati sulle conversazioni nel web relative alle tematiche di sostenibilità tra gli utenti e i media online in Francia, Spagna, Germania e Italia ed è emerso che quando le persone e i media in tutti i paesi analizzati riflettono sulle corporation, dibattono in misura decisamente minore di sostenibilità sociale legata ai dipendenti e ai cittadini.  

 

“Il nostro Paese viene da un momento difficile, c’è molto scetticismo sulla possibilità di cambiare le cose”, ha detto Enrico Giovannini, Ministro delle infrastrutture e della mobilità sostenibili. “Come dice il Presidente del Consiglio le cose prima si fanno e poi si comunicano, ma stiamo facendo così tante cose che non è semplice comunicarle. Anche come Ministero che ha la fetta più ampia del PNRR, 62 miliardi stiamo provando ad andare in questa direzione anche con l’ausilio di soggetti privati e di altre istituzioni pubbliche per spiegare i dieci anni per cambiare l’Italia, per migliorare il benessere delle persone e per aumentare la competitività”.  “I cittadini hanno bisogno di vedere più che di sentire”, ha concluso Giovannini. “Faccio un esempio: l’anno prossimo avremmo la riduzione di un’ora dell’attraversamento dello stretto di Messina. Ma penso anche ai nuovi autobus, ai nuovi treni. Queste sono le cose in grado di comunicare il cambiamento sostenibile”.

 

“La sostenibilità è entrata a pieno titolo nelle finalità dell’impresa sia in una prospettiva di CSR che di creazione di vantaggio competitivo attraverso il rafforzamento del proprio capitale reputazionale in una convergenza naturale con le finalità della shareholders theory”, ha detto Angelo Miglietta, Prorettore Vicario con delega ai rapporti con le imprese IULM

“In Italia quasi la metà dei rispondenti al questionario ritiene prioritario per le corporation l’impegno verso una produzione sostenibile (48,95%). Sul fronte della sostenibilità sociale, più del 45% dei rispondenti ritiene prioritario l’impegno delle organizzazioni sulla massimizzazione della sicurezza dei dipendenti sul posto di lavoro”, ha illustrato Stefania Romenti, docente di Corporate Communication e Public Relations IULM, coordinatrice della seconda ricerca dell’ICCH. “L’altra metà è divisa nel giudicare prioritario il rispetto delle diversità e dei diritti umani (20,76%), il benessere dei dipendenti in termini di welfare aziendale (19,62%) e solo all’ultimo posto con il 12,95% è ritenuto prioritario l’impegno verso le comunità locali. Infine – conclude Romenti- secondo il 35,24% degli italiani, garantire l’equilibrio della retribuzione tra i lavoratori dovrebbe essere una priorità per le corporation in materia di governance sostenibile”.

 

Con riferimento al PNRR, è ampia la percentuale di cittadini (35%) che dichiara di avere una buona conoscenza dei contenuti, anche se è maggiore la percentuale di coloro che hanno una conoscenza moderata (39%). Il 38,7% degli intervistati ha dichiarato che la comunicazione del PNRR è stata equilibrata, completa (32,2%), oggettiva (36,1%) e accurata (33,5%). In termini generali ben il 63% degli italiani vede nel Piano un’importante opportunità e non sembra preoccuparsi dei rischi e delle criticità più volte riportate dai media, anche internazionali. La TV e naturalmente il web sono stati i canali più consultati per cercare informazioni sul Piano, con particolare riferimento ai video tematici su Youtube. La ricerca ICCH conferma che tra le fonti i giornalisti di testate accreditate sono i più attivi, anche in rete, nel generare dibattito sul PNRR e sono anche quelli che alimentano più engagement attorno ai contenuti del Piano di Recovery.

La componente internazionale è uno degli aspetti caratterizzanti l’International Corporate Communication Hub(ICCH) che è il primo Osservatorio internazionale sulla comunicazione corporate e istituzionale, come ha detto Stefano Lucchini, Presidente Advisory Board ICCH. “L’ICCH – ha precisato-  è un hub che mette in relazione manager e accademici per riflettere sul ruolo della comunicazione su tematiche di attualità e di rilevanza offrendo degli strumenti pratici di azione per iniziare a disegnare il futuro che vogliamo”.

 

Alla presentazione sono intervenuti anche Luigi Ferraris, Amministratore Delegato Gruppo Ferrovie dello Stato Italiane, Marco Patuano, Presidente a2a, Carlo Tamburi, Direttore Enel Italia e Antonio Parenti, capo Rappresentanza in Italia della Commissione Ue.

 

 

La normalità post COVID-19

Quale sarà la normalità post COVID-19? Molto interessante lo scenario descritto dal “Rapporto Coop 2020 – Economia, Consumi e stili di vita degli italiani di oggi e di domani” redatto dall’Ufficio Studi di Ancc-Coop (Associazione Nazionale Cooperative di Consumatori) con la collaborazione scientifica di Nomisma, il supporto di analisi di Nielsen e i contributi originali di Gfk, Gs1-Osservatorio Immagino, Iri Information Resources, Mediobanca Ufficio Studi, Npd,  Crif e Tetra Pak Italia. L’edizione 2020 del Rapporto è tutta orientata a descrivere la situazione della nuova realtà che ci attende quando la pandemia sarà conclusa e per fare questo, oltre alle fonti di solito utilizzate, si è avvalsa di due diverse survey denominate “Italia 2021 il Next Normal degli italiani” e condotte entrambe nello scorso mese di agosto. La prima ha coinvolto un campione di 2000 italiani rappresentativo della popolazione over 18. La seconda si è rivolta alla community del sito di italiani.coop ed ha coinvolto 700 opinion leader e market maker fruitori delle passate edizioni del Rapporto. Tra questi sono stati selezionati 280 soggetti (imprenditori, amministratori delegati e direttori, liberi professionisti) in grado di anticipare più di altri le tendenze future del Paese.  A tutti va il nostro ringraziamento.

Nuovo Mondo, Nuova Europa – Un nuovo mondo (e una nuova Europa) si intravedono all’indomani della pandemia che, simile a uno tsunami, ha invaso e alterato le nostre vite generando un contraccolpo economico violentissimo e delineando al tempo stesso una traiettoria incerta e sospesa di futuro. Niente a che vedere con le crisi del recente passato e piuttosto paragonabile agli effetti generati dall’ultimo conflitto bellico, sull’altare del Covid si sono volatilizzati 12.500 miliardi di dollari di Pil mondiale in un anno, sono 170 i Paesi che subiranno una contrazione del Pil procapite nel 2020 (per l’Italia  le ultime previsioni si attestano a un -9,5%), e solo nel 2023 (per i più pessimisti nel 2025) il nostro Paese ritornerà ai livelli precedenti la pandemia, peraltro a loro volta lontani dagli standard antecedenti l’ultima grande recessione. E se molti contano sul vaccino come spartiacque per la ripresa tanto da attribuirgli una sorta di valenza salvifica, fanno  riflettere quegli 8 milioni di italiani che dichiarano di non volersi vaccinare e comunque di voler attenderne gli esiti.

A livello mondiale tutto lascia prevedere uno spostamento ad Oriente del baricentro economico e geopolitico del mondo (la Cina, la Russia e le altre economie asiatiche rispettivamente per il 71%, 42% e 40% della business community italiana vedranno rafforzato il proprio ruolo a livello mondiale) mentre le economie atlantiche sembrano destinate a perdere la loro centralità (il 44% degli executive italiani si attende un indebolimento del ruolo geopolitico e economico degli Usa e il 78 di quello europeo). Contemporaneamente  però in maniera un po’ inattesa il Covid si è rivelato un  formidabile agente aggregatore dei 27 Paesi membri dell’Ue, ha sancito la fine dell’austerity e avviato un piano di rilancio di ingenti proporzioni di cui l’Italia godrà in larga parte. Non a caso l’87% dei top manager intervistati nella survey “Italia 2021, il Next Normal degli italiani” dichiara imprescindibile l’appartenenza alla Ue per superare la fase attuale. E il 42% indica come ambiti prioritari a cui destinare le risorse europee il potenziamento dell’istruzione, seguono gli investimenti sul capitale umano (lavoro per il 36%, tecnologia e digitalizzazione a pari merito e quindi infrastrutture e sanità/salute).

I nuovi stili di vita degli italiani – In attesa che il Recovery Fund si concretizzi e benchè confortati  dagli ammortizzatori sociali già messi in campo dal Governo, gli italiani  si rivelano essere ancora oggi i più pessimisti d’Europa e in effetti insieme agli spagnoli registrano il più ampio peggioramento delle proprie condizioni di vita rispetto al 2019 (e non sembra andare meglio se le ultime previsioni confermano un recupero nel 2021 solo della metà dei posti di lavoro che perderemo nel 2020). Contemporaneamente però nel nostro Paese “solo” il 5% delle famiglie fino ad ora afferenti alla classe media prevede di scivolare nelle classi più basse nei prossimi anni: un dato comunque drammatico ma inferiore a quel 12% che ha subito analoga sorte durante la crisi economica globale del 2006/2008. D’altro canto il 38% pensa di dover far fronte nel 2021 a seri problemi economici e tra questi il 60% teme di dover  intaccare i propri risparmi o di essere costretto a chiedere un aiuto economico a Governo, amici/parenti e banche.  A farne le spese sono soprattutto le classi più fragili, i giovani, le donne, mentre c’è un 17% di italiani che prevede nel 2021 un miglioramento delle proprie condizioni economiche (si tratta prevalentemente di uomini dell’upper class).

Il Covid ha avuto inoltre anche l’effetto di una macchina del tempo sugli stili di vita degli italiani, trasportandoli avanti e indietro con estrema rapidità rispetto agli andamenti temporali abituali. Da un lato compare così l’Italia delle rinunce con l’arretramento del Pil procapite ritornato ai livelli di metà anni ’90 e la spesa in viaggi trascinata indietro di 45 anni ai livelli del 1975 o i consumi fuori casa arretrati di tre decenni, dall’altra c’è invece l’Italia che balza in avanti velocizzando dinamiche già in essere, ma mai così veloci. E’ questa l’Italia dello smartworking (+770% rispetto a un anno fa), dell’egrocery (+132%), della digitalizzazione a tappe forzate non solo nella sfera privata ma finalmente anche nelle attività professionali (lavoro appunto ma anche didattica, servizi, sanità) che genera una crescita stimata di questo segmento di mercato pari a circa 3 miliardi tra 2020 e 2021.  Girando la sfera compare però anche un Paese dove si potrebbe arrivare nel 2021 a perdere 30.000 nascite scendendo così sotto la soglia psicologica dei 400.000 nati in un anno e anticipando di quasi un decennio il ritmo della denatalità. A rinunciare all’idea pianificata di avere un figlio a causa dell’emergenza sanitaria è il 36% dei nostri giovani (18/34 anni) a fronte ad esempio di un 17% dei francesi e addirittura di un 14% dei tedeschi. Non è la sola rinuncia importante: matrimoni, trasferimenti, acquisti di case e aperture di nuove attività figurano tra i progetti rinviati o cancellati e queste scelte di vita mancate hanno coinvolto in totale l’84% di italiani.  Le disuguaglianze economiche viaggiano poi di pari passo con i disagi psichici e sociali a svantaggio delle fasce deboli: i ragazzi iperconnessi per i quali è maggiore il rischio hikikomori salgono nei primi sei mesi dell’anno di un +250% fino a toccare quota 1 milione, +119% le chiamate al numero antiviolenza di genere da marzo a giugno. Per curare le ferite ci vorrà tempo: un 36% degli executive italiani si aspetta nei prossimi 3/5 anni una società più rancorosa e violenta.

La vita in una bolla – Il risultato finale al netto delle retrocessioni e degli avanzamenti è la sensazione di vivere sospesi in una bolla. Costretti nel lockdown ma diffusa ancora oggi e persino domani. E’ la bolla digitale che crea cluster chiusi e autoreferenziali, la bolla della vita affettiva che si autodelimita (pur generando soddisfazione), gli spostamenti che diventano di corto raggio e la comfort zone della casa che rassicura.  Tra le mura domestiche piuttosto che altrove ci si nutre (41% prevede di ridurre la spesa prevista nel prossimo anno alla voce ristoranti), ci si diverte (44% la quota di chi nel 2021 ridurrà la spesa per intrattenimenti vari fuori casa), si incontrano amici e familiari (o a casa propria o a casa loro). E se dovessero mancare affetti ci si adopera per riempire il vuoto: 3,5 milioni di italiani durante il lockdown o subito dopo hanno acquistato un animale da compagnia e 4.3 milioni pensano di farlo prossimamente. Da ultimo, l’elemento forse più insidioso è il restare prigionieri di bolle sociali e informative chiuse ed autoreferenziali, terreno fertile per l’informazione di parte e la proliferazione delle fake news. L’esplosione nell’uso dei social, il dilagare della fruizione di contenuti on demand, l’assenza di un confronto sociale ampio sono elementi che coinvolgono e coinvolgeranno una parte oramai sempre più ampia della popolazione (il 30% degli italiani nel 2021 aumenterà il tempo trascorso su internet e il 19% quello passato sui social).

Homemade, digital, safe e sostenibile il nuovo cibo degli italiani – La casa come salvagente a cui tenersi stretti fa il paio con un’altra costante che distingue ancora nel postcovid gli italiani dai cugini europei: il cibo.  Alla spesa alimentare, pur nell’emergenza e in una evidente contrazione generalizzata degli acquisti, gli italiani non rinunciano e solo il 31% dichiara di voler acquistare prodotti di largo consumo confezionato più economici a fronte di un 37% della media europea; un dato decisamente inferiore al 50% registrato lo scorso anno e al 57% del 2013 (anno in cui eravamo in piena crisi economica con un Pil a -1,8%). E anche a emergenza sanitaria finita solo il 18% dice di voler acquistare prodotti più economici. Guardando dentro al carrello si nota una straordinaria inversione di tendenza rispetto alla fotografia scattata appena un anno fa dal RapportoCoop2019. Allora era fuga dai fornelli, un fenomeno che in realtà continuava in progressione costante tanto da dimezzare in 20 anni il tempo passato a cucinare ogni giorno ridotto allora a appena 37 minuti. Complice il lockdown invece gli italiani hanno rimesso le mani in pasta e anche nel postcovid il cook@home è una costante che spiega la forte crescita nelle vendite degli ingredienti base (+28.5% in GDO su base annua) a fronte della contrazione dei piatti pronti (-2,2%). Supportati o meno da aiuti tecnologici (la vendita dei robot da cucina ha fatto registrare a giugno +111% rispetto all’anno prima), il 30% dedicherà ancora più tempo alla preparazione del cibo e il 33% sperimenterà di più. 1 su 3 lo farà per “mangiare cose salutari”, ma c’è anche un 16% che lo ritiene un modo per mettersi al riparo da possibili occasioni di contagio. La preparazione domestica dei cibi è probabilmente anche la nuova strategia degli italiani per non rinunciare alla qualità e contemporaneamente alleggerire il proprio budget familiare.

Nella bolla si accorcia anche la filiera del cibo e per un italiano su 2 l’italianità e la provenienza dal proprio territorio acquistano ancora più importanza di quanta ne avessero in periodo precovid dove già godevano di ampia popolarità.  E sempre per questioni di sicurezza nell’estate appena trascorsa abbiamo assistito a una vera e propria rivincita del food confezionato che cresce ad un ritmo più che doppio rispetto all’intero comparto alimentare se paragonato a un anno fa: +2,3% contro +0,5% (giugno-metà agosto 2020). Il packaging protettivo e avvolgente sembra in questo caso fare la differenza in tutti i comparti: l’ortofrutta e persino i salumi e latticini. Mentre guardando i carrelli sempre nell’estate riacquista forza il gourmet (+16.9%), l’etnico (+15,4%) e il vegan (+6,9%).

Dopo il boom del lockdown non accenna a diminuire nemmeno la corsa all’efood. A fianco dell’ecommerce puro però gli italiani sembrano voler scegliere soluzioni miste; il click&collect ad esempio passa dal 7.2% delle vendite on line del 2019 al 15,6% nella fase successiva alla pandemia. E c’è anche chi (è il 42%) ritiene comunque importante il consiglio del negoziante/addetto al banco a riprova che la parola chiave sembra essere sempre più la multicanalità. A costituire un deterrente è il caro prezzo dell’online: +25% rispetto al carrello fisico (marzo-giugno 2020). Un divario di prezzo diminuito rispetto al 2019 quando si attestava su un +35%, ma comunque tale da far sì che la spesa digitale sia un’abitudine diffusa tra le famiglie con redditi medio alti: la quota di acquirenti egrocery passa dal 39% dei ceti popolari al 53% della upper class. E sarà ancora quest’ultima a trainare la domanda nel futuro prossimo (lo dichiara il 43%).

E tra le costanti che il Covid non ha spazzato via riemerge con forza l’attenzione prestata dagli italiani ai temi della sostenibilità. Se è vero che per il 35% dei manager intervistati nella survey “Italia 2021, il Next Normal degli italiani” lo sviluppo della green economy è una delle tendenze che caratterizzeranno in positivo il postcovid, questa sorta di nazionale coscienza verde si traduce in acquisti correlati. Nel confronto internazionale non c’è gara. Il 27% degli abitanti del Bel Paese acquista prodotti sostenibili/ecofriendly di più rispetto a prima del Covid (i francesi e gli spagnoli seguono distanziati con un 18% in percentuale); il 21% -in questo caso appaiati agli spagnoli- ha aumentato gli acquisti in punti vendita che promuovono prodotti sostenibili (contro un 17% degli americani e un 15% dei tedeschi) e il 20% acquista di più da aziende che operano nel rispetto dei lavoratori. Degno di considerazione anche quell’1.700.000 di italiani che sperimenteranno gli acquisti green per la prima volta a emergenza finita.

COOP – “È indubbio che il Covid abbia cambiato i comportamenti degli italiani come il Rapporto ci racconta. –sottolinea Maura Latini, amministratore delegato Coop Italia- Ci conforta ritrovare in questi mutamenti delle conferme su tendenze già individuate da Coop e su cui ci stiamo posizionando con forza distinguendoci anche dai competitor.  La sensibilità green degli italiani in primis su cui stiamo molto investendo e che abbiamo visto riconfermata anche durante e dopo il lockdown nei nostri dati interni. Il nostro marchio di prodotti biologici Vivi Verde è il primo brand bio venduto nella grande distribuzione in Italia con oltre 150 milioni di fatturato nel 2019 e non ha cessato di crescere durante e dopo il lockdown con un trend a valore del +9%. Ma è più in generale tutto quanto attiene al tema sostenibilità e cibo su cui il nostro prodotto a marchio non teme rivali. Voglio ricordare l’impegno che ci siamo presi con i nostri soci e consumatori sia bloccando i prezzi dei nostri prodotti  fino alla fine del mese di settembre e l’offerta di 10 dei nostri prodotti al prezzo di 10 euro (“Operazione Forza 10”). Il prezzo volutamente conveniente (sconto medio del 37% rispetto al prezzo normale) non deve distogliere dal valore dei singoli prodotti che hanno tutti la garanzia Coop, la tracciabilità e l’aggiunta di caratteristiche uniche (è il caso dell’antibiotic free o del controllo etico sulla filiera). Operazione peraltro molto apprezzata; le 10 referenze in 3 mesi hanno registrato vendite di 9,5 milioni di euro, con quantità doppie rispetto allo scorso anno, con punte di crescita del +300% o oltre. Continueremo a lavorare in questa direzione sia sull’offerta, potenziando l’assortimento con prodotti Coop avanzati e innovativi sul versante della qualità e della sostenibilità, convenienti ed accessibili alle fasce deboli della società. Ma ripenseremo anche i nostri punti vendita seguendo  la logica delle nuove necessità mostrate dagli italiani: qui la scommessa non è offrire un servizio in più e mantenere lo status quo dell’offerta tradizionale, viceversa è rimettersi in gioco”.

“Coop fa parte con orgoglio di quella filiera agroalimentare che ha saputo reagire positivamente alla crisi del Covid19 e grazie all’impegno dei nostri colleghi di punto vendita ha fornito un servizio basilare alla collettività – dice Marco Pedroni, Presidente Coop Italia – Non ci siamo certo arricchiti, i dati delle vendite di marzo (con picchi anche del +20%) si sono successivamente ridimensionati, come è naturale. A giugno e luglio poi gli andamenti della grande distribuzione sono stati negativi, mentre ad agosto si registra una tenuta. Per la sicurezza e per il sostegno alle famiglie abbiamo fatto investimenti aggiuntivi di oltre 100 milioni in questi mesi. Come Coop prevediamo di chiudere l’anno con un leggero miglioramento del fatturato stimato in un + 1% e dunque un valore superiore a 13 miliardi di euro nella sola parte retail.

Siamo in una fase in cui si riducono i consumi per le difficoltà economiche di tante famiglie, ma anche per la preoccupazione sul futuro, tanto è vero che registriamo una forte crescita del risparmio. L’alimentare è al centro dell’attenzione delle famiglie, ma anche nel nostro settore c’è la propensione ad avere un carrello più leggero. Ci preoccupa la polarizzazione sociale per l’ingiustizia che cresce e per i suoi effetti sui consumi evidenziata anche nel Rapporto. Il rischio che la pandemia spinga verso soluzioni semplificate e meno sostenibili è reale, anche nei consumi di una parte delle famiglie. Confermiamo la nostra strategia che punta a prodotti buoni e sostenibili accessibili a tutti, non solo alle fasce che stanno meglio.

In questa fase si mescolano incertezza sul futuro e speranze nuove; la ripresa della domanda interna e dei consumi è fondamentale, non basta l’export. Crediamo che le istituzioni e il Governo, sulla spinta anche delle risorse UE, debbano essere protagoniste di uno straordinario piano di rilancio. Un piano che favorisca gli investimenti privati e pubblici per ammodernare il Paese, che defiscalizzi il lavoro, che sia di sostegno alla svolta “green”. Per quanto ci riguarda più direttamente crediamo che sarebbe importante una fiscalità e un sostegno alle produzioni e ai consumi verdi. Invece della plastic-tax che è un errore, azzeriamo l’IVA su chi usa plastica riciclata o per chi adotta soluzioni a basse emissioni.”

La versione integrale del Rapporto Coop 2020 è visionabile e scaricabile su http://www.italiani.coop