Leader, meglio se donna

Lettera 43: Largo alle donne, fanno bene all’azienda

Negli ultimi anni si è diffuso, fortunatamente, un assunto che in pochi si sentirebbero di contraddire: non possiamo più permetterci di sprecare il talento femminile. Una posizione che ci libera da schemi del passato superati dall’evoluzione della società in cui viviamo, ma che non ci aiuta sul piano del “come”: che cosa dobbiamo fare affinché il potenziale femminile non venga bloccato da ostacoli, evidenti oppure nascosti, che ne impediscono la piena espressione? Il riferimento è alle famigerate quote rosa. Un concetto che suscita diffidenza, perché sembra suggerire un’imposizione che, con l’obiettivo nobile di porre rimedio a una stortura, introduce in realtà un’altra distorsione altrettanto criticabile. Gli choc, a mio avviso, sono necessari. Ciò che suscita polemica nell’immediato si traduce spesso, dopo un congruo periodo di tempo, in qualcosa di più accettabile e ordinario. C’è solo bisogno di uno strappo iniziale per lasciarsi alle spalle uno status quo dovuto perlopiù a regole non scritte, pigrizia mentale o semplice applicazione di schemi mentali diventati obsoleti.

IL 59% DEGLI AMERICANI VORREBBE PIÙ DONNE LEADER IN POLITICA

Nell’America di Donald Trump e degli accesi dibattiti innescati dal movimento #MeToo, quali sono gli orientamenti dell’opinione pubblica? Si riconosce la questione della piena inclusione delle donne nella vita economica e sociale della nazione come un’emergenza a cui porre rimedio o come un dato di contesto da accettare? Nell’ultimo report Women and Leadership 2018, pubblicato in questi giorni dal Pew Research Center, la fotografia scattata dall’istituto di ricerca a due anni dalla candidatura della prima donna alla Casa Bianca, Hillary Clinton, è in chiaroscuro: il 59% degli americani intervistati ammette che vorrebbe vedere più donne in posizioni apicali in ambito politico e la stessa percentuale si attenderebbe un numero maggiore di donne ai vertici delle aziende, con variazioni significative tra democratici e repubblicani. Gli elettori del primo partito sono il doppio più inclini dei sostenitori del Grand Old Party a riconoscere l’assenza delle donne nelle posizioni chiave della politica (79% contro 33%) e sono inoltre più propensi a indicare la discriminazione di genere come la vera causa di questo squilibrio (64% contro 30%). Un dato significativo, anche per gli strateghi politici che dovranno lavorare alle prossime elezioni di metà mandato.

STILI DI LEADERSHIP DIFFERENTI

Se allarghiamo l’immagine ai due sessi, notiamo che la percezione del gender gap si discosta: per sette donne su 10 è una realtà di fatto, mentre per solo metà degli uomini intervistati si tratta di un fenomeno di cui hanno contezza. Un risultato incoraggiante arriva da un’altra rilevazione: il 57% degli americani non ha problemi ad affermare che uomini e donne sono ugualmente in grado di occupare posizioni di responsabilità, anche se si riconoscono ai due sessi stili di leadership piuttosto diversi. La maggioranza degli intervistati, per esempio, indica le donne come le più adatte ad assumere un ruolo di guida basato sull’empatia nei confronti del proprio team e sulla capacità di trovare sempre un compromesso. Lo stesso vale per la politica: una leader donna sarà più incline a essere un modello di comportamento e a ricorrere a un atteggiamento meno aggressivo rispetto ai colleghi o avversari uomini. Gli uomini, al contrario, vengono preferiti in situazioni in cui è più utile assumersi dei rischi e dimostrare un modo di fare volitivo. Infine, se consideriamo i benefici per l’intera società gli americani non hanno dubbi: il 69% ha dichiarato che più donne in posizioni di responsabilità (in politica e nelle aziende) porterebbe a un miglioramento della qualità della vita per tutti.

Se guardiamo all’Italia, dobbiamo considerare alcuni passi importanti che sono stati compiuti negli ultimi anni. Non mi riferisco a macro-tendenze o ai segnali più evidenti (donne ai vertici di grandi aziende, associazioni e sindacati, oltre a donne in politica e alla guida di importanti dicasteri), quanto a un fenomeno che si è sviluppato senza clamori: il progressivo ingresso delle donne nei consigli di amministrazione. Lo choc iniziale positivo lo dobbiamo alla legge che ha preso il nome dalle sue due prime firmatarie Lella Golfo (Forza Italia) e Alessia Mosca (Pd), la 120 del 2011. La norma prevede di riservare nei board delle quotate e delle società a controllo pubblico un quinto dei posti al primo rinnovo (e un terzo al secondo e terzo rinnovo) al genere meno rappresentato. Trasformando una momentanea distorsione in un assist incredibile alla componente femminile. Le percentuali hanno premiato lo sforzo delle due parlamentari: più 17% di donne al primo rinnovo dei consigli di amministrazione e più 11% a quello successivo, in attesa del 2021, quando la norma andrà a scadenza.

LO STUDIO DELLA CONSOB

A valutare l’impatto positivo di questa inversione di tendenza ci ha pensato la Consob. In un quaderno di ricerca dal titolo Boardroom gender diversity and performance of listed companies in Italy, uscito in questi giorni, il team di studiosi dell’authority conclude che, se la percentuale di donne supera una soglia del 17%-20% del board, è evidenziabile un effetto positivo sui vari indicatori di performanceaziendale. Una sufficiente massa critica di manager donne (e non qualche isolata presenza di carattere perlopiù simbolico) è dunque in grado di innescare un circolo virtuoso, con impatti misurabili, tra gli altri, sul Return on Sales (Ros) e il Return on Assets (Roa). E l’intervallo di tempo analizzato è proprio quello più o meno corrispondente al varo della legge Golfo-Mosca (2008-2016).

POTENZIALE FEMMINILE IN AZIENDA E COMUNICAZIONE

Potremmo dunque affermare che la consapevolezza del problema, come ci raccontano i sondaggi condotti negli Usa, non basta. In questo caso, l’Italia può essere orgogliosa di una scelta coraggiosa che si è tradotta in trend di miglioramento concreti e in ricadute misurabili in termini di competitività. In attesa che questo regime transitorio giunga al termine, possiamo però fare in modo che ciò che è avvenuto per effetto di una regola si trasformi in consuetudine. Aprire le proprie aziende al potenziale femminile è anche una leva straordinaria di posizionamento: una comunicazione che insista su questo aspetto, sempre senza eccedere, può aiutare a rafforzare la riconoscibilità di un brand o garantire una maggiore coesione interna. Un altro elemento che può solo migliorarne ulteriormente la performance.

Bandi, gare pubbliche e fondi europei: i liberi professionisti come le pmi

Prima l’equiparazione dei liberi professionisti alle PMI, oggi la possibilità di accedere ai fondi europei. Grazie alla Legge 208/2015, la cosiddetta Legge di Stabilità, i professionisti, così come le piccole e medie imprese, possono accedere ai fondi strutturali europei, ossia quegli strumenti per la politica di coesione dell’Unione Europea, pensati per  favorire la crescita economica e occupazionale degli stati membri, stanziati per il periodo 2014/2020.

In particolare, la Legge di Stabilità ha introdotto, anche per coloro che svolgono la libera professione, la possibilità di accesso ai fondi FESR (Fondo Europeo di Sviluppo Regionale) e FSE (Fondo Sociale Europeo) nonché ai Piani operativi PON (Programma Operativo Nazionale) e POR (Piano Operativo Regionale).

In base alla Regione di appartenenza, inoltre, sono previsti specifici bandi per esempio per l’accesso al microcredito (anche se nel 2018 cambieranno le norme e le percentuali a garanzia del credito concesso) o il  finanziamento per le nuove attività.

Prima di questa norma i professionisti potevano partecipare a gare ed appalti solo attraverso un contratto con un’impresa, che una volta aggiudicata una gara, aveva facoltà di coinvolgere professionisti specializzati per la realizzazione di parti del progetto.

Oggi invece per i lavoratori autonomi è possibile partecipare sia singolarmente sia con formule di aggregazione temporanea con altri professionisti, ovvero in rete con le imprese oppure in consorzi, così come regolato dalla norma contenuta nell’articolo 12 legge 81/2017, il cosiddetto Jobs Act, che consente la partecipazione dei lavoratori autonomi agli appalti pubblici stabilendone le regole.

La norma è in vigore dal 14 giugno 2017, ma non ancora molto pubblicizzata. Le Pubbliche Amministrazioni, infine, sono tenute a favorire l’accesso alle informazioni sulle gare pubbliche dei lavoratori autonomi e dei professionisti e la loro partecipazione alle procedure di aggiudicazione.

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Il mercato delle PR, tra necessità e buoni propositi

Agli inizi di gennaio non si può prescindere dal fare il bilancio degli ultimi 12 mesi appena trascorsi. Per la nostra professione il 2016 è stato un altro anno di profondi cambiamenti. E non solo per le costanti e meravigliose innovazioni tecnologiche che siano chiamati a capire e a gestire.

La sfida che siamo costretti ad affrontare riguarda l’etica e il rigore professionale, ma anche – se non soprattutto – la rivalutazione del valore generato dal nostro lavoro. Si tratta di una vera e propria scommessa: trasformare l’impatto economico (negativo) che l’ultimo decennio ha generato, in un nuovo modello di affermazione e rilancio della nostra professione.

Alcuni dati. Tra il 2011 e il 2015 le imprese attive del settore della comunicazione in Italia – tra liberi professionisti, ditte individuali e società di capitali – sono state mediamente 27,5 mila: 27.884 nel 2011, 27.872 nel 2012, 27.538 nel 2013, 27.174 nel 2014, 27.516 nel 2015.  In quel quinquennio sono scomparsi dal mercato, definitivamente, 3.044 operatori della comunicazione, registrando una media di “morte” d’impresa di 609 aziende all’anno, 61 cessazioni irreversibili al mese.  Di quei 27,5 mila attori della comunicazione, Il 57% è rappresentato da professionisti, che hanno resistito alla crisi pagando un caro prezzo, imparando a convivere con la precarietà e saltuarietà degli incarichi, accettando il deprezzamento della prestazione d’opera, la svalutazione del valore economico di una professione che costa fatica e che necessita di competenze e di formazione continua.

Una professione che, nonostante tutto, è centrale per l’economia del nostro Paese.

Da una ricerca di ottobre 2016, presentata da Confcommercio Professioni in occasione della pubblicazione del “Manifesto per la competitività dei professionisti nell’economia dei servizi” emergono dati significativi:

  • in Italia 1/4 degli occupati complessivi sono lavoratori autonomi; il doppio rispetto a Francia e Germania.
  • crescono i professionisti, soprattutto i non ordinistici (+48,8% in 5 anni), in controtendenza rispetto al calo delle altre componenti occupazionali.
  • il 99% dei professionisti non ordinistici lavorano nei servizi.
  • i professionisti dei servizi di informazione e comunicazione hanno un reddito pro capite medio di oltre 20mila euro.

La chiave di volta per la ripresa nazionale è quindi il terziario avanzato, servizi ad alto contenuto tecnologico che vedono in prima linea le professioni.

Professioni che in Europa già sono considerate giuridicamente alla stregua di un’impresa che produce lavoro e valore per il Paese.

Ferpi già vanta l’iscrizione nell’Albo Professioni non organizzate in ordini o collegi – legge n.4/2013 – grazie al suo statuto e al rispetto delle regole di aggiornamento professionale. Ma vogliamo e dobbiamo fare di più, per essere attenti a ciò che accade a livello normativo, fiscale e contrattuale, per analizzare le dinamiche del mercato, per “combattere” una vera e propria rivoluzione culturale, che vada al di là della crisi economica.

In questa rubrica si affronteranno le questioni più attuali del mercato della comunicazione da un’angolazione economica e si ospiteranno contributi di soci e colleghi. Con un unico obiettivo: confrontarci e individuare gli strumenti istituzionali, culturali e normativi utili allo sviluppo del nostro settore.

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Reputazioni sull’orlo di una crisi social

Dalla gestione delle crisi dipende la reputazione ma talvolta anche la sopravvivenza delle organizzazioni. Ferpi entra nel cuore del dibattito su un tema di grande attualità come la crisis communication con l’evento “Reputazioni sull’orlo di una crisi social”, organizzato dalla Delegazione Ferpi Lazio e in programma martedì 9 ottobre a Roma.

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Lavoro, parità di genere ancora lontana

Il mercato del lavoro

Paola Profeta

Speciale otto marzo – Rivista Il Mulino

 

Secondo l’ultimo Global Gender Gap Index del World Economic Forum, mentre nel campo dell’istruzione e della salute i divari di genere sono globalmente inferiori al 5%, in ambito economico resta da chiudere il 41% del divario e in ambito politico ben il 77%. Alcuni Paesi però sono più avanti di altri sul fronte della parità. Alcuni, come Islanda, Finlandia, Svezia, Norvegia per esempio, hanno chiuso più dell’80% delle differenze tra uomini e donne. L’Italia resta indietro: all’82esimo posto su 144 Paesi analizzati, in caduta libera di 32 posizioni rispetto all’anno precedente, e addirittura al 118esimo posto quando consideriamo le opportunità e i risultati economici.

Il mercato del lavoro è, insieme alla politica, il luogo in cui le differenze di genere sono più ampie. Il tasso di occupazione femminile, come è dimostrato dal grafico, sia pur in lieve aumento negli ultimissimi mesi, è ancora fermo al di sotto del 50%, fanalino di coda in Europa, insieme alla Grecia, ben lontano da quel 75% che l’Europa raccomanda di raggiungere entro il 2020. Al Sud, il tasso è addirittura fermo al 30%.

Eppure le donne italiane sono più istruite degli uomini: su 100 ragazzi che si laureano, 60 sono ragazze. Non era così sessant’anni fa, quando solo il 25% dei laureati era donna. Restano alcuni divari nelle discipline di studio, con una scarsa presenza delle donne nelle discipline Stem (scienze, tecnologia, ingegneria e matematica), che sono e diventeranno sempre più importanti e remunerative sul mercato del lavoro. Ma anche in questi campi la presenza femminile sta aumentando.

Le statistiche sul mercato del lavoro, invece, stentano a migliorare. La vita delle donne lavoratrici italiane è un percorso a ostacoli. Già al primo lavoro perfino le laureate guadagnano circa il 7% in meno degli uomini (secondo i dati Almalaurea). La forbice si allarga al momento della scelta di avere figli: anche se l’età media alla nascita di un figlio aumenta, nella speranza che più avanti sia più facile combinare figli e lavoro, sono molte le madri che smettono di lavorare alla nascita di un figlio. Secondo gli ultimi dati dell’Ispettorato del lavoro, nel 2016 il 76% delle dimissioni sono state di lavoratrici madri. Un abbandono che è spesso definitivo, perché, in Italia più che in altri Paesi europei, è difficile rientrare sul mercato del lavoro dopo una lunga assenza. Più del 40% delle madri che si licenzia motiva la sua scelta con la difficoltà di conciliare il lavoro con la famiglia. Non solo la quantità, ma anche la qualità del lavoro femminile è inferiore a quella maschile: secondo l’Eurostat (2017), il 15,8% delle donne italiane lavora a tempo determinato, contro il 13,5% degli uomini: un fenomeno che si è accentuato negli anni della crisi economica. Le donne lavorano più spesso degli uomini part-time, con ripercussioni negative sulle carriere, e spesso il part-time è anche involontario, con conseguenze negative sui salari.

Per le donne che resistono sul mercato del lavoro, la parità retributiva è ancora lontana. Anche se i dati ufficiali Eurostat mostrano che l’Italia è uno dei Paesi con il più basso differenziale salariale di genere, si tratta del risultato della forte selezione positiva che caratterizza il mercato del lavoro italiano: le donne con potenziali redditi bassi restano fuori dal mercato del lavoro, con la conseguenza che le donne che lavorano hanno salari mediamente più alti – e quindi più vicini a quelli maschili – di quelli che vedremmo se la partecipazione femminile al mercato del lavoro fosse più elevata.

Anche le possibilità di carriera sono poche. Le donne in posizioni manageriali in Italia sono circa il 20%. Il valore migliora quando guardiamo ai consigli di amministrazione nelle società quotate, dove la percentuale femminile supera il 30%, grazie all’introduzione della legge sulle quote di genere nei consigli di amministrazione e collegi sindacali delle società quotate e al controllo pubblico (legge 120/2011, detta Golfo-Mosca). Si tratta, come sottolinea anche l’Oecd, dell’unica dimensione in cui l’Italia eccelle, grazie ad una legge considerata esemplare in Europa.

Quali misure aiuterebbero a sciogliere il nodo della partecipazione delle donne al mondo del lavoro? Uno dei motivi per cui le donne smettono di lavorare alla nascita di un figlio è la “competizione” che si innesca tra stipendio della donna e spese di cura: se la donna lavora, è necessario pagare una baby-sitter o un asilo nido, che possono essere più costosi dello stipendio stesso della donna. Poiché la donna tipicamente guadagna di meno dell’uomo, anche se i figli dovrebbero essere una responsabilità di entrambi i genitori, e anche in presenza di una cultura paritaria, la cura finisce per ricadere sulla donna. Di cosa hanno bisogno le madri per continuare a lavorare? Per esempio, di sgravi fiscali totali rispetto alle spese di cura per i figli (ma anche per gli anziani e i disabili a carico) e di incentivi: le donne che tornano al lavoro dopo la maternità obbligatoria dovrebbero ricevere almeno tanto quanto quelle che prolungano il congedo, e cioè il 30% del proprio stipendio, per esempio sotto forma di bonus o di voucher per le spese di cura. Un’altra misura fondamentale è il congedo di paternità, periodo esclusivo per i padri retribuito allo stesso livello di quello materno, che in Italia al momento è solo di 3 giorni. Una maggiore condivisione della cura, infatti, è fondamentale per sbloccare la rigida divisione dei ruoli tra uomini e donne esistente nel nostro Paese, che ostacola il lavoro femminile.

Di fronte della crescente consapevolezza che il lavoro femminile sia una questione fondamentale di diritti, ma anche un enorme potenziale di crescita del Paese, i risultati italiani dovrebbero far scattare l’allarme e far balzare l’occupazione femminile in cima all’agenda decisionale, politica ed economica. Oltre a mettere in campo misure appropriate, è infatti necessario anche creare un contesto culturale adeguato, nel quale le azioni possano avere successo. Una sfida impegnativa, ma necessaria. Non solo l’8 marzo.

GoBeyond è tornato!

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Innovazione, originalità, competenza

La call for ideas firmata SisalPay riapre le selezioni per le start up più innovative.

 

Due categorie:

Social innovation e Servizi per il cittadino.

Due premi da 20 mila euro per le idee vincenti.

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Competenze: le top skill 2018 secondo LinkedIn

Le qualità più importanti per un professionista, sotto il profilo pratico, sono quelle legate al Cloud e al Calcolo Distribuito, come anche al Software middleware e di integrazione e all’Analisi Statistica e dei Data Mining, mentre le più importanti qualità professionali trasversali sono risultate essere la leadership, la comunicazione, la collaborazione e il time management.

A dirlo LinkedIn, il più grande social network professionale al mondo, presentando i risultati della ricerca Top Skill 2018, l’annuale studio relativo alle competenze più richieste dalle aziende a livello globale. Come ogni anno, l’analisi ha indagato i due principali filoni che identificano le Hard skill e le Soft Skill più importanti per i professionisti. Così, da una parte abbiamo quelle competenze più tecniche e che spesso fanno riferimento all’emisfero sinistro del nostro cervello, ovvero la parte specializzata nei processi analitici, logici e razionali, mentre, dall’altra, troviamo le capacità governate principalmente dall’emisfero destro più dedito allo sviluppo e alla gestione del nostro lato creativo e adattivo che caratterizza il nostro modo di adeguarci alle situazioni e di interagire con gli altri.

I risultati, se da una parte sottolineano come il comparto tecnologico rimanga essenziale per le hard skill, dall’altra mettono in risalto una costante crescita della necessità per i professionisti di imparare a gestire in maniera migliore il proprio tempo, al fine di poter raggiungere quell’equilibrio tra lavoro e vita privata di cui tanto si parla. Con l’avvento della tecnologia e la possibilità di abilitare politiche di smart working, infatti, le aziende cercano sempre di più lavoratori consapevoli delle loro possibilità e in grado di gestire in maniera efficiente il proprio lavoro. Questo però comporta anche che i professionisti abbiano una buona capacità comunicativa e collaborativa, al fine di poter creare un ambiente lavorativo più disteso, stimolante e produttivo.

“Oggi le aziende cercano talenti che sappiano unire nella maniera giusta le proprie competenze tecniche con le proprie qualità sociali e personali” ha spiegato Marcello Albergoni, Head of Italy di LinkedIn. “Grazie a un network di oltre 562 milioni di utenti a livello globale, di cui oltre 11 milioni solo in Italia, le imprese di qualunque dimensione hanno davvero la possibilità di fare questo, capendo anche quali siano i reali interessi dei candidati e selezionando i talenti migliori non solo in base al loro curriculum, ma anche scoprendo quali siano le loro attitudini, i loro modi di interagire con gli altri, chi conoscono e quali sono le loro aspettative. Tutte informazioni estremamente utili per selezionare le persone giuste nel momento giusto”.

In questo contesto, quindi, dai dati emersi dalla ricerca si è potuto notare come le qualità più importanti per un professionista, sotto il profilo pratico siano quelle legate al Cloud e al Calcolo Distribuito, come anche al Software middleware e di integrazione e all’Analisi Statistica e dei Data Mining, mentre le più importanti qualità professionali trasversali sono risultate essere la leadership, la comunicazione, la collaborazione e il time management.

In Italia la ricerca poi, si è concentrata su tre settori particolarmente interessanti e in crescita nel nostro paese, ovvero il settore bancario, quello dell’automotive e quello legale. In questi ambiti apparentemente così distanti tra loro si può riscontrare un elemento in comune ovvero un aumento della richiesta da parte delle aziende di trovare professionisti con capacità analitiche. Nel mercato automobilistico, infatti, questa qualità è al terzo posto tra le skill più richieste, mentre si attesta addirittura al primo nel comparto bancario e in quello legale, sottolineando l’importanza di sapere analizzare e interpretare le situazioni e i dati, che sempre di più oggi sono alla base del business di qualunque settore.

“L’analisi dei dati è oggi un fattore imprescindibile per il successo di un’impresa” ha aggiunto Albergoni. “Avere la capacità di interpretare e gestire la mole di informazioni necessarie allo sviluppo del business moderno diventa così un vero e proprio elemento distintivo per tutti quei talenti che cercano nuove opportunità e che puntano al futuro di un mondo del lavoro in continua evoluzione”.

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Digital PR. L’importanza delle persone nelle relazioni pubbliche digitali

I media digitali hanno rivoluzionato le modalità di contatto con il pubblico, ma la persona rimane un elemento centrale anche nel processo di comunicazione online. La nuova sfida lanciata dai social media sarà il tema del Ferpi Summer Meeting “Digital PR. L’importanza delle persone nelle relazioni pubbliche digitali” che si terrà lunedì 16 luglio presso la Terrazza Martini Milano (Piazza Armando Diaz, 7) dalle ore 19.00 alle 21.00, con a seguire Networking Cocktail.

L’evento, organizzato da Ferpi Lombardia, vede la collaborazione di Martini ed Ega Worldwide.

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Il valore economico delle Pubbliche Relazioni

Al 25esimo Simposio di Bledsulle Relazioni Pubbliche, che si è svolto sul lago di Bled (Jugoslavia) tra il 5 e il 7 luglio 2018, sono stati presentati i dati di una ricerca su tre Paesi campioni –  USA, UK e Italia – per stimare l’impatto economico delle Relazioni Pubbliche.

I dati della ricerca sono sintetizzati in un paper dal titolo HOW BIG IS PUBLIC RELATIONS

 

In sintesi: il mercato delle Pubbliche Relazioni nel mondo vale dai 300 ai 600 miliardi di dollari ed occupa da 3 a 6 milioni di persone. In Italia si parla di 100.000 persone e di 25 mld di dollari anno di impatto economico.

La ricerca presentata nel 2018 è l’aggiornamento della prima edizione scritta nel 2005, allora pubblicata da IPR, Istitute for Public Relatons. 

 

La fotografia Italia: 

Nel 2002 il governo italiano ha eseguito un censimento ufficiale e ha deciso che c’erano 42.000 professionisti delle pubbliche relazioni nel settore pubblico. 

FERPI, la Federazione delle relazioni pubbliche italiane, ha utilizzato questo numero e ha stimato che c’erano 60.000 in totale, compresi i settori privato, sociale e di consulenza. Da allora il numero è notevolmente cresciuto. Nel 2010 la stima Ferpi è salita a 80.000 e oggi è più probabile che siano 100.000. Il salario annuo lordo medio oggi si aggira intorno a $ 80.000 e se lo si moltiplica per il numero magico di 3 si arriva a $ 24 miliardi, che facilmente diventano $ 25 miliardi con costi aggiuntivi.

Per quanto queste stime siano molto approssimative e non riescano a cogliere l’effettiva portata della professione in questi tre paesi, si può certamente dire che adottando i criteri indicati, l’impatto complessivo delle pubbliche relazioni nei tre paesi è significativamente maggiore e più impressionante rispetto alle stime tradizionali e generalmente accettate che applicano l’approccio ad alta intensità di capitale”.

…..”In molti paesi del mondo (Germania, Italia, Brasile, Nigeria, Spagna, Portogallo ..) 
il settore pubblico rappresenta da solo oltre il 50% del numero di operatori stimati di pubbliche relazioni attivi …”

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Un mondo in crisi: il ruolo e le responsabilità delle PR

 

 

Onu, donne e discriminazione

Da NOI SIAMO FUTURO

Il 3 settembre 1981 entrava in vigore la convinzione ONU sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro la donna. La cosiddetta CEDAW, contiene i principali diritti civili, politici, sociali, economici e culturali, declinandoli al femminile.

A livello internazionale era stato riscontrato che l’assenza di una specifica menzione delle donne nell’attribuzione di determinati diritti umani era troppo spesso equivalsa alla loro mancata concessione. E se in Italia il voto attivo e passivo è un diritto scontato per le donne della nostra generazione, così come l’accesso alle professioni, agli incarichi e agli uffici pubblici, solo recentemente altre riforme hanno determinato il possibile accesso delle donne nell’arma e inciso ancor più significativamente sul diritto di famiglia, ad esempio garantendo il congedo di paternità in alternativa a quello di maternità.

Eppure l’Italia non sembra avere le carte in regola sull’eliminazione della disparità uomo-donna. Una discriminazione che pesa sullo sviluppo economico del Paese, soprattutto sul suo tessuto sociale, in preda a tensioni tra i generi che spesso si riversano nella violenza.

La Banca D’Italia ha preso in esame alcuni dati relativi al 2008. Le donne si trovano in condizione di disparità rispetto agli uomini, non solo perché pressate dagli impegni familiari, ma anche perché sono spesso relegate in posizioni lavorative di basso livello di retribuzione. Il Mezzogiorno, dove già il tasso di occupazione femminile è molto basso, ha assorbito quasi metà del calo nazionale delle occupate causato dalla crisi. Nel 2009 in Italia soltanto il 28,7% delle donne con licenza media aveva un’occupazione, contro il 37,7% medio dell’UE. Nel nostro Paese solo le laureate “storiche” riescono a raggiungere i livelli europei, mentre le neolaureate continuano a trovare enormi difficoltà ad entrare nel mercato del lavoro.

La situazione peggiora per le donne sposate e con figli; inoltre il peggioramento delle condizioni del mercato del lavoro ha rallentato l’inserimento delle donne nelle professioni più qualificate e riavviato un fenomeno di “marginalizzazione” verso occupazioni già relativamente molto “femminilizzate”. I dati dell’OECD mostrano come l’Italia sia uno dei Paesi peggiori per essere una donna lavoratrice. I dati dell’ISTAT e dell’INAIL, che rivelano un aumento della partecipazione nel mercato del lavoro, mettono in evidenza anche un dato incontrovertibile: una donna su due non lavora. Sono 2,3 milioni le donne che risultano inattive per motivi di famiglia, di queste il 40% ha un diploma di scuola superiore o un titolo universitario, il 45% vive al Sud. Dati che spiegano come le donne, malgrado una preparazione adeguata, siano scartate per ruoli di rilievo: su di esse ricadono le inadempienze delle Stato e devono occuparsi della casa e della famiglia.

La condizione della donna nel mondo del lavoro