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Una guerra ai tempi dell’era digitale

“Net-war. Ucraina, come il giornalismo sta cambiando la guerra”, così si intitola il nuovo libro di Michele Mezza, che viene approfondito da un articolo del “Terzo Giornale”. Si approfondiscono dinamiche, società e cultura della guerra in quest’era digitale.

I comportamenti delle due parti – i cittadini ucraini e la truppa di Mosca, che per numero ed estrazione sociale rappresentano un campione significativo della società russa – appaiono come la diretta conseguenza delle rispettive culture e pratiche di autonomia sociali, prima ancora che dell’organizzazione militare: quelle della popolazione di Bucha, che pur in una condizione estrema ha trovato naturale ricorrere, individualmente o a gruppi, a tutte le risorse tecnologiche per concorrere alla difesa territoriale, contrapposte a quelle dei russi che invece ignorano le più elementari norme di sicurezza esponendosi al fuoco nemico. In entrambi i casi il motore di quei comportamenti è stato l’individuo digitale, o meglio il nuovo principio di cittadinanza che consente a una persona, in virtù dei sistemi digitali di cui dispone, di aumentare a dismisura le sue capacità e la sua intraprendenza.

Fondamentale risulta, approfondendo questa pista, la differenza su cui riflette Manuel Castells in Reti di indignazione e speranza: la differenza fra individuazione – che implica la progettualità di una persona tesa a rivolgersi, attivandole, a comunità e gruppi collettivi, come la rete tendenzialmente permette – e un individualismo fine semplicemente del proprio benessere personale. Seguendo queste due categorie possiamo anticipare l’ipotesi che gli ucraini agiscano secondo l’individuazione mentre i russi sono figli di un atavico individualismo centralizzato.

La novità è proprio l’affiorare, a livello di massa, di questa tendenza all’individuazione come categoria di governance territoriale, o meglio ancora, come cartina al tornasole per scorgere l’attitudine di una comunità a una sorta di mutualismo digitale che finalizza le risorse tecnologiche a una crescita del controllo sociale sullo Stato centrale. La rete è causa ed effetto di questo nuovo istinto sociale.

Sono proprio i modelli comportamentali che caratterizzano i due belligeranti ad aiutarci a comprendere le ragioni del sorprendente epilogo emerso nella prima fase della guerra, in cui la diversa interpretazione delle risorse tecnologiche comunitarie ha decretato sul terreno l’impasse della potente armata d’invasione russa. Come ci spiega nel suo contributo in appendice, l’ingegner Pierguido Iezzi, amministratore delegato di Swascan, una delle compagnie europee più accreditate nella pianificazione e analisi di cybersecurity, il potenziale di attacco digitale russo è risultato efficace nelle incursioni contro altri Stati europei, ma comunque segnato da una logica gerarchica centralizzata, dove si coglie una visione della tecnologia digitale come puro consumo individuale separato da qualsiasi logica cooperativa e collaborativa; un consumo appunto refrattario ad ogni forma comunitaria, esattamente come appare la società civile russa, atomizzata, priva da secoli di strumenti di partecipazione reale alla governance del Paese.

Nell’assetto gerarchico russo le tecnologie sociali indotte dall’intera scala in cui è organizzata una comunità evoluta – dalle famiglie ai quartieri, alle città, alle congregazioni religiose, fino alle categorie professionali o alle lobby di interessi – risultano compresse e irrigidite in una traduzione tutta gerarchica e autoritaria. La chiave che spiega le diverse attitudini, lo vedremo meglio più avanti, è legata alle pratiche di negozialità fra società civile e Stato centrale, che in Russia non vantano memorie e predisposizioni. Il risultato nelle esperienze digitali è che realtà e realizzazioni, per quanto evolute e sorrette da capacità e competenze di indubbio livello, rimangono poi prevalentemente inscritte in una logica di subordinazione gerarchica, come sono del resto gli hacker di San Pietroburgo, che pianificano le interferenze nei Paesi occidentali descritte da Pierguido Iezzi.

Al contrario, in Occidente, compresa l’Ucraina, la società digitale, seppur dominata da strozzature monopoliste, dove la proprietà di piattaforme e algoritmi tende a sovrapporsi a un libero gioco nella gestione di dati e profilazioni, rimane caratterizzata da un sistema di cooperazione e competitività comunitaria, in cui l’individuo è protagonista in quanto parte di un grafo sociale autonomo, come avrebbe detto Albert-László Barabási nel suo fondamentale Link. In quel testo l’autore spiega come la dinamica di una rete, rappresentabile appunto in grafi, nonostante la concentrazione della sua attività attorno ai nodi più condivisi, rimanga una potenza inedita e straordinaria nell’evoluzione del capitalismo industriale. Torniamo così alla distinzione fra individuazione e individualismo di cui parlava Castells.

Persino i proprietari delle piattaforme, da Google a Facebook ad Amazon, che proprio nella dinamica delle reti a invarianza descritte da Barabási inevitabilmente finiscono per accentrare progressivamente la maggiore rilevanza e quantità di relazioni, devono poi comunque trovare il modo di conquistare la complicità dei propri utenti, arrivando a camuffare o a distorcere le relazioni con il proprio pubblico. Ma è proprio questo sforzo che ci dice come il sistema reticolare non sia automaticamente controllabile e manipolabile dai proprietari.

La guerra dei joiners

Dinanzi a questa visione sociale della società digitale, la guerra in Ucraina diventa più nitidamente analizzabile nel suo apparentemente inspiegabile andamento, in cui sono contrapposte due realtà istituzionali asimmetriche. L’ottica digitale che a noi pare avere dato un timbro alla guerra, smentendo la previsione di una facile vittoria russa e stupendo il mondo per le forme e la pervasività di una mobilitazione sociale attorno al governo di Kiev, ha portato sul campo di battaglia abilità, saperi, competenze e soprattutto solidarietà e tradizioni nella cooperazione fra i diversi soggetti che intervengono nel combattimento, a volte persino a loro insaputa. Una cultura che la rete ci ha insegnato nei suoi ormai due decenni di guida delle nostre vite.

Stiamo parlando di quell’intelaiatura di relazioni e autonomie di cui parlava Charles Tilly, che vede lo Stato come dominus inter pares e non come dominatore nel gioco dei negoziati fra interessi e culture che in Occidente caratterizza le democrazie rappresentative rispetto alle autocrazie asiatiche, e che Alexis de Tocqueville definì in maniera impareggiabile “a nation of joiners”.

La straordinaria, quanto profetica, definizione che Tocqueville sceglie per definire quell’impasto fra piccola proprietà, grandi latifondi e autonomie locali che germina poi quello che saranno gli Stati Uniti, sarà anche il terreno di coltura di quel fenomeno che è stata appunto la “nascita della società in rete”, come la definisce Manuel Castells nel primo dei volumi che compongono la sua trilogia sull’età dell’informazione.

La forma di convergenza e occasionale cooperazione fra individui e grumi di interessi, in cui è la provvisorietà ad assicurare autonomia e indipedenza a tutti i soci, a differenza delle esperienze europee, e italiane in particolare, di collaborazione e cooperative fra lavoratori strutturate in apparati permanenti per acquisire e incrementare una piccola proprietà di terra o accedere vantaggiosamente a beni e servizi, fa crescere la figura dell’anonimo e momentaneo interlocutore che in rete si aggrega su un tema o una richiesta facendo montare la valanga fino a minacciare i giganti.

Quell’infinito mosaico di joiners che si ritrovano su ogni tema e argomento, per poi separarsi una volta raggiunto l’obiettivo, e magari scontrarsi fra gli ex compagni di avventura su un tema diverso, ha generato e poi protetto la crescita di quel fenomeno che abbiamo chiamato “i social”: le piattaforme di Facebook e TikTok cosa sono se non piazze globali dove joiners di tutto il mondo si incontrano per istantanee quanto addirittura sconosciute cooperazioni? La rete è una grande eredità di quei joiners americani che costringe, questa è la sua ambiguità, le comunità a seguire questo istinto per poterla praticare.

I grafi che misuravano le attività digitali, e che ora con la guerra sono sospesi, dicono che in Ucraina ci sono circa il triplo dei siti web che in Russia e il traffico punto a punto è più del doppio, nonostante la popolazione sia circa un terzo. Si tratta di un termometro attendibile della vitalità della composizione sociale, benché nel Paese rimanga ancora forte una struttura da clan legata a latifondi economici dove oligarchi, di stampo russo, controllano intere regioni in cui operano i singoli settori economici. Ma questa struttura a guglie viene articolata e temperata dalla stratificazione storica che ha portato in Ucraina ondate di popolazioni sia da Est, con le orde tartare e poi le successive invasioni dalle steppe russe, sia da Ovest dove polacchi e baltici hanno ridisegnato più volte le frontiere. Un ruolo nel rendere il profilo sociale del Paese più frastagliato e pluralista lo gioca anche la religione, che scompone trasversalmente, da sud-est a nord-ovest, le comunità secondo l’osservanza dei diversi riti ortodossi e le diverse professioni del credo cattolico.

La frontiera che è stata violata dalle truppe russe vede appunto da una parte un Paese in cui si stavano irrobustendo gruppi di joiners, persino grazie alle contrapposizioni territoriali e linguistiche che hanno caratterizzato gli anni precedenti la guerra, e dall’altra un profilo della società ancora indifferenziato, in cui il dispositivo militare amministrativo statale appare come il moloch che schiaccia i protagonismi sociali.

Da questa differenza trarremo le ragioni che, nella prima fase della guerra, hanno visto la resistenza ucraina maneggiare e ottimizzare al meglio quei sistemi digitali che reclamano sempre autonomia e indipendenza in chi li usa. Esemplificativo di questa realtà è stato il ruolo ad esempio dei sindaci delle diverse città ucraine occupate o liberate nell’ondivago andamento dei combattimenti. Personaggi che abbiamo visto affiancare persino i comandanti militari nell’organizzazione della resistenza attorno a Kiev, nelle prime due settimane, e poi lungo tutto quell’intricato fronte sud in cui ogni città diventava una fortezza medioevale da difendere per eventuali controffensive. La biografia di questi sindaci – prevalentemente sportivi o ex militari – e la loro popolarità – anche nelle regioni di lingua russa li abbiamo visti sostenuti e seguiti dalle popolazioni locali – ci fanno intendere come ogni città sia stata un centro ad alta autonomia che manteneva una propria identità e in alcuni casi, nelle zone di confine, persino una propria politica estera, diversa da quella del governo centrale, ma non per questo si separava dallo sforzo di resistere all’invasione russa.

Sul versante opposto vediamo muoversi un pachiderma, com’è il dispositivo militare e amministrativo russo, figlio di un Paese troppo grande per permettersi frammentazioni o decentramenti, dove le distanze sono dominate solo da grandi apparati di comando e comunicazione che fanno capo a un vertice isolato, il Cremlino.

Una struttura che avverte come unico collante il legame fra il singolo russo e la sua terra, quella porzione di territorio che può calpestare o controllare, ritagliandola con lo sguardo dall’indifferenziato orizzonte che da Sebastopoli, passando per la capitale, arriva fino a Vladivostok, ben undici fusi orari a oriente. In questa infinita pianura, dove terra e cielo non riescono a districarsi, la storia non ci ha mostrato alcuna significativa forma di autorganizzazione, se non quelle ataviche istituzioni di proprietà della terra che venivano cancellate o rivoltate dalla semplice volontà di un nobile, che abbia mai potuto parlare, non dico negoziare, con Mosca. Come sbottò nella prima metà dell’Ottocento il marchese di Custine, aristocratico francese certo non sostenitore delle più ardite teorie democratiche dinanzi all’autoritarismo del regime russo, “è un tale popolo che rende indispensabile un dominio così dispotico, o è un dominio così crudele che rende il popolo così poco maneggevole?”. Uno scenario sintonizzato perennemente sulla paura dell’invasore come unica identità attiva comune. Quello stesso sentimento a cui ricorse Stalin nel suo fatidico discorso del 3 luglio del 1941 per chiamare alla resistenza contro i nazisti quelli che apostrofò con l’inconsueta espressione di “sorelle e fratelli”. Un attaccamento ancestrale che ha portato i russi ad aver vinto tutte le guerre difensive, mentre sono stati sconfitti in tutte quelle offensive.

La difesa si basa infatti su un’automatica reazione che riesce a far parlare vertice e base, mentre l’attacco prevede una lucida formazione, una capacità di trasmissione e pianificazione delle ragioni per cui si esce dai propri confini. Tanto più se la guerra è una competizione di intelligence, come avremo modo di vedere, dove bisogna massificare i dati, moltiplicare gli occhi, gestire e combinare le informazioni.

Così George Friedman, direttore della rivista “Geopolitical Futures”, inquadrava, nel marzo del 2022, lo svolgimento della prima fase delle operazioni belliche: “L’Ucraina non ha un centro di gravità ma solo una fanteria sparsa, che non ha fornito alcun obbiettivo specifico da distruggere. Anche se si potrebbe considerare guerriglia, non lo è, e l’Ucraina ha sorpreso il nemico con la sua resistenza e imprevedibilità. L’aggressore può rispondere con attacchi brutali sulla popolazione ma così non lascia agli ucraini altra scelta che combattere. L’esercito russo non era organizzato per questa guerra, non l’aveva pianificata e non può che adottare provvedimenti brutali contro i civili”. La commistione dei comportamenti della popolazione ucraina con i linguaggi dell’informazione digitale ci svela la natura e la matrice di questa imprevedibilità che ha così sorpreso i russi. E non solo.

Come Gramsci scrisse nei suoi commenti dopo la conclusione della prima guerra mondiale, nel 1919, che i cinque anni che infiammarono l’Europa valevano come cinque secoli di storia per il Vecchio continente per il loro impatto dirompente su equilibri e organizzazione degli Stati, così oggi i mesi della guerra in Ucraina che hanno sconvolto il 2022 ci sembrano bruciare decenni del pur frenetico tempo del XXI secolo, in cui le sorprese della storia ormai non ci sorprendono più.

In questo terribile anno che doveva segnare la ripresa, dopo i mesi della pandemia, siamo diventati tutti più insicuri e aggressivi per esserci trovati a contatto diretto con la linea del fuoco come non ci era mai capitato nelle precedenti esperienze di combattimenti, neanche in quelle più vicino ancora, come fu la Jugoslavia. Non solo l’evoluzione della rete ci ha fatto seguire le scie di morte dei missili che colpivano bersagli fra le folle umane, ma la dinamica di quelle azioni, l’osservazione e la trasmissioni di quelle immagini ci mostravano civili come noi, giornalisti o semplici testimoni, che giostravano con sistemi quali quelli che noi usiamo tutti i giorni – dagli smartphone ai droni commerciali, dai sistemi di tracciamento alle app comunitarie – che erano parte dei combattimenti, interferendo e alterando la stessa guerra.

L’informazione è diventata […] logistica militare. E questa evoluzione è possibile perché la struttura sociale reclama oggi decentramento delle informazioni e partecipazione alle decisioni, persino in guerra, sicuramente sul territorio, inevitabilmente nelle istituzioni. Si fa politica spalmando il potere lungo tutta l’organizzazione dei consensi. Si fa la guerra collegando lo specialista militare con le capacità del cittadino digitale.