Aziende italiane a rischio estinzione entro il 2050

Come sarà l’Italia imprenditoriale nel 2050?

Interessante intervista de “Il Settimanale” ad opera di Alessandro Paciello dove Fabio Papa, docente di economia, ricercatore ed esperto di politiche per il cambio generazionale nelle società familiari, esplicita le sue previsioni riguardo la situazione economica del paese.

Professore, lei è conosciuto per essere un ricercatore molto attento alle piccole e medie aziende italiane, con una forte vicinanza ai territori e alle famiglie imprenditoriali. Quale futuro si immagina per il nostro Paese?

Per immaginare il nostro futuro e scoprire come sarà l’Italia nel 2050, è utile partire dal nostro presente. In molti non sanno che in Italia oggi operano circa 4,5 milioni di imprese, di cui oltre – 98 su 100 – di piccole e medie dimensioni. Il dato ancora più interessante è che di questi 4,5 milioni di imprese, ben l’83% è a conduzione familiare. Parliamo quindi di circa 3,7 milioni di aziende. Pertanto, il dato significativo è che siamo un’economia mossa da piccole realtà capitanate da una moltitudine di famiglie imprenditoriali e ciò indipendentemente dalla regione presa in considerazione. Dall’altra parte, viviamo in un Paese dove la maturità imprenditoriale si ottiene solo al compimento del cinquantesimo anno d’età e che conta al suo interno un elevato numero di anziani in rapporto ai giovani. Dopo Giappone e Principato di Monaco, siamo il Paese con l’aspettativa di vita più alta al mondo.

Che cosa ci vuole dire con questi dati, quindi? E che legame c’è con territori e imprese?

Ciò che voglio dire è che la nostra economia non è a rischio recessione, ma a rischio estinzione. Ma nessuno sembra ancora essersene reso conto.

So che questa mia affermazione potrebbe risultare molto forte, ma visto che mi domanda come sarà l’Italia dei territori e delle imprese nel 2050, non posso fare altro che illustrare la dura verità, nella speranza che il mio grido d’allarme possa risvegliare gli animi di imprenditori, manager e professionisti. Ma anche dei governanti, troppo presi a rincorrere le emergenze del momento senza porsi il problema della transizione generazionale e della sua reale sostenibilità negli anni che verranno.

La sua affermazione è molto forte e mi destabilizza. Lei ipotizza che siamo a rischio estinzione imprenditoriale e che nel 2050 lo scenario non sarà affatto incoraggiante. Può essere più preciso?

La mia non è un’ipotesi, ma una certezza! E riparto dai dati: su 100 italiani solo 62 sono in possesso di un diploma. E le dirò di più: su 100 italiani solo 16 hanno conseguito la laurea. E solo 4 italiani su 100 aderiscono a meccanismi di formazione professionale durante lo svolgimento del proprio lavoro. Con oltre 3,5 milioni di giovani under 35 che – in questo preciso istante – non lavorano e non studiano. Dove voglio arrivare? L’Italia è in piena crisi culturale. Come se non bastasse, viviamo in un momento storico che richiede un enorme senso critico e dove senza aver maturato la capacità di coltivare il pensiero laterale non è possibile svilupparsi, né a livello territoriale né imprenditoriale.

Questi dati sono certamente interessanti. Lancio quindi una provocazione: se siamo così ignoranti e impreparati, come lei sta affermando, come mai rappresentiamo ancora oggi l’ottava potenza economica a livello mondiale? Ci è andata bene, finora? Solo fortuna?

No, affatto. C’è una spiegazione molto semplice: dopo la Seconda guerra mondiale l’Italia era un Paese distrutto. In questo contesto, miseria, voglia di fare e fame permeavano il tessuto sociale. Nacque proprio da questi tre ingredienti il famoso boom economico che animò la nostra Italia e che rese i territori sempre più ricchi e dinamici. Si lavorava infatti senza sosta, con entusiasmo e passione alla ricerca di un benessere sociale ed economico che abbiamo conquistato con sacrificio e lavoro. Ma c’è un problema: quel Paese è diventato molto (troppo) ricco in un lasso temporale davvero breve. Ciò ha portato la popolazione ad accumulare tanto benessere, ma poca cultura e coscienza di sé.

E sono proprio questa mancanza di cultura e di senso di popolo a rappresentare le principali cause dei mali di un sistema-paese chiaramente destinato a implodere in un mondo che è completamente cambiato; tanto che molte aziende non hanno l’opportunità di implementare il passaggio generazionale in quanto si è persa quella fame di riscatto che ha guidato il Paese proprio durante il boom economico. Per questo siamo a rischio estinzione: perché manca la miccia in grado di riaccendere gli animi, soprattutto tra i giovani. E questa miccia non può più essere data dalla fame. Serve altro: servirebbe quello spirito critico che non vedo nel Paese e che nessuno ci invita a recuperare.

Mi scusi, il suo è un punto di vista davvero singolare. Lei sta dicendo che da qui al 2050 circa un milione di aziende è a rischio scomparsa perché i giovani non avrebbero le motivazioni dei loro predecessori a causa di una mancanza generalizzata di “fame” e di una scarsa preparazione culturale e civica. È mai possibile?

Non solo è possibile, ma è la triste realtà. Ogni anno mi confronto con migliaia di giovani. Oltre il 70% di loro proviene da famiglie imprenditoriali. Il trend che si è innescato è molto chiaro: i loro genitori si sono rivelati completamente inadeguati nel guidare le nuove generazioni verso l’apprezzamento dei veri valori della vita. E li hanno anche drogati con beni materiali, forse perché si sentivano in colpa per la loro assenza da casa o, ancora, perché troppo concentrati nel produrre una ricchezza economica che ci sta portando al vuoto sociale.

Il risultato di ciò è un Paese costituito da ragazze e ragazzi senza uno scopo preciso, che vagano nel digitale in cerca di quelle risposte che solo la famiglia (sempre più compromessa) potrebbe e dovrebbe offrire. In questo scenario anche scuola e università hanno fallito, sia perché troppo distanti dalla realtà, sia perché completamente inadeguate nell’ingaggiare gli studenti. I tassi di abbandono scolastico (a livelli record in Italia) non fanno che testimoniare tutto ciò. Siamo quindi allo sbando.

Il Paese è sotto anestesia totale. E senza giovani che vogliono impegnarsi, anche succedendo con entusiasmo e passione ai propri genitori nell’azienda di famiglia, le mie previsioni sull’estinzione delle imprese risultano addirittura ottimistiche.

Senza valori e cultura non c’è futuro. Ora che sono più convinto della sua visione, mi può fornire qualche soluzione concreta all’apocalisse socio-economico da lei rappresentata?

Mi piace essere sempre molto diretto: lo scenario è già fortemente compromesso. Ma esistono delle azioni pratiche che è possibile implementare in modo immediato per mitigare gli effetti negativi. Partiamo dalle famiglie, non solo imprenditoriali: è necessario smettere di assolutizzare l’importanza dei titoli di studio.

Rimettiamo al centro la passione e il talento dei figli. Rimettiamo a fuoco i valori veri, i sentimenti, la centralità dei nuclei familiari. In poche parole il cuore!

C’è bisogno di un vero e proprio salto di consapevolezza spirituale. Solo passando «dall’importanza del mero pezzo di carta» a un Paese che punta nuovamente sulle competenze reali e ai valori umani si potrà iniziare a invertire la rotta. Una volta che i genitori avranno finalmente effettuato questo passaggio epocale, gran parte dell’ansia da prestazione che caratterizza le nuove generazioni sarà magicamente svanita.

La seconda azione operativa è quindi dedicata ai giovani. Bisogna farli uscire dalla dicotomia «o si studia o si lavora». Bisogna fare entrambe le cose per crescere rapidamente. E bisogna anche capire, indipendentemente dal percorso di vita e di studi che si intende percorrere, che tre competenze saranno sempre necessarie nell’Italia che verrà: l’utilizzo di base del computer, il che non ne significa però la paranoica dipendenza digitale; la conoscenza di almeno una lingua straniera; la capacità di ascolto, in unione alla volontà di effettuare costante sacrificio – in un’ottica di lavoro di squadra e di condivisione valoriale.

Questi tre semplici ingredienti possono far letteralmente svoltare la vita di ogni giovane italiano, avviandolo a una nuova consapevolezza e al lavoro così, che si possa uscire quanto prima dalla zona di comfort.

E, infine, un terzo e ultimo suggerimento per le imprese: tutti i titolari d’azienda ambiscono alla continuità generazionale. In fondo, siamo esseri umani. È un’aspirazione comprensibile. Ma nel mondo di domani la preparazione è tutto. E visto che fare impresa è un mestiere, servirà comprendere che solo chi ha passione ed è disposto a evolvere in modo costante merita di entrare in azienda, affiancando con umiltà i propri genitori.

Senza dimenticare che il passaggio generazionale è un processo, oltre che una sfida. Proprio come quella che dovremo vivere in questi lunghi 28 anni prima del 2050.

Siamo davvero pronti? Mi auguro di sì, perché non ci sono alternative!

Fonte: ilsettimanale.pmi.it 

Diamo la patente alle pr

Economy pubblica i risultati dell’indagine svolta da ReteCoM sul mercato della comunicazione, rivelando le insoddisfazioni, le esigenze e le aspettative dei professionisti. Di seguito l’articolo completo.

Ruoli, competenze, titoli, stipendi: nel mondo della comunicazione, paradossalmente, quello che manca è la trasparenza. ReteCoM ha voluto vederci chiaro con un’indagine capillare. Ecco cosa ha scoperto

Public relation manager, portavoce, press officer, spindoctor, reputation manager, copy, investor relator… in una parola “comunicatore”. Figure professionali diverse, competenze variegate (e in continua evoluzione), ma anche divario reddituale tra vertice e livelli intermedi, il solito gender gap e, soprattutto, un’esigenza forte, chiara e trasversale di rappresentanza, tutela, formazione e servizi dedicati a chi opera nel settore della comunicazione: ecco il menu, o forse sarebbe meglio dire la fotografia, che emerge dall’indagine di ReteCoM, la Rete tra le Associazioni per la Comunicazione e il Management, realizzata in collaborazione con ManagerItalia ed Astraricerche. «Il contesto sociale, ancor più con le implicazioni delle variabili date dalla pandemia e dalle conseguenze globali della guerra, rende questo momento storico un’occasione propizia e necessaria per avviare un percorso di definizione del settore della comunicazione e delle competenze dei professionisti che vi operano», spiega a Economy Rita Palumbo, portavoce e coordinatore di ReteCoM. «In questo momento storico, un’indagine quali-quantitativa era necessaria».

Perché?

Negli ultimi anni abbiamo assistito e vissuto avvenimenti che hanno posto sotto i riflettori dell’opinione pubblica ed economica la comunicazione come settore strategico. Durante l’emergenza sanitaria, la comunicazione tra pubblica amministrazione e cittadini, aziende, partiti, organizzazioni del terzo settore ha giocato un ruolo fondamentale, sottolineando un dato inconfutabile: l’imprescindibilità di un corretto sistema comunicazionale. Purtroppo, nel nostro Paese esiste ancora un gap culturale addirittura sul significato di “comunicazione”, che può essere colmato con una precisa definizione delle competenze e del ruolo del comunicatore professionale. Ma non solo.

Cos’altro?

In questi ultimi anni ci sono stati avvenimenti importanti per il settore e per chi svolge questa professione. Il primo riguarda la difesa dei contributi dei comunicatori da quella che abbiamo definito la “deportazione” da Inps ad Inpgi. La nostra risposta è stata dar vita a ReteCoM, la Rete delle Associazioni per la Comunicazione e il Management, un’unica sigla per aumentare il peso della rappresentanza ai tavoli istituzionali.

E il secondo?

La conclusione dell’iter della norma Uni 11483, che definisce in modo preciso e dettagliato quali sono le abilità, le conoscenze, le competenze e gli obblighi deontologici del comunicatore professionale.

E poi l’indagine…

È la logica conseguenze delle azioni portate a termine con successo: elaborare l’identikit dei comunicatori per descrivere il settore e testimoniarne le esigenze. Insomma, far capire al mercato, alla pubblica amministrazione e alla business community che chi svolge questa professionale non organizza feste o ingressi alle discoteche e non fa solo siti o post sui social. 488 risposte tutte spontanee. Siamo molto soddisfatti del risultato, perché la partecipazione è stata una scelta volontaria e consapevole, con risposte che quindi presumibilmente riportano la realtà senza filtri o pressioni.

Cos’avete scoperto?

Il questionario è stato diviso in due parti: la prima, descrittiva, per rilevare chi è, che cosa fa, dove lavora, e qual è il reddito del comunicatore professionale, che opera per il 48,7% nel Nord-Ovest, il 23,2% nel Nord-est, il 27,1% nel Centro-Sud, mentre solo l’1% all’estero; dati che confermano che oltre l’70% delle attività professionali si concentrano al Nord.  Il dato più interessante della parte descrittiva è la varietà delle figure professionali che agiscono nel sistema della Comunicazione. La domanda “in quale profilo professionale ti riconosci di più” è stata posta con due modalità: a risposta unica e a risposta multipla. Nel caso di risposte multiple emergono profili professionali diversificati, il che significa che all’interno dell’area comunicazione, lo stesso professionista svolge più ruoli. Quando invece è stato richiesto di indicare una risposta unica, la maggioranza si definisce chief communication officer, ovvero la massima figura di vertice. Questo risultato va interpretato anche da un altro punto di vista, quello della responsabilità e dell’autonomia dei processi della propria prestazione professionale.

E la seconda parte?

La seconda parte del questionario è stata finalizzata ad esprimere il proprio parere sull’attuale situazione. Nonostante il reddito sia superiore a quello degli italiani (statisticamente individuato in poco più di 21mila euro all’anno), l’indagine ha rilevato un’alta insoddisfazione reddituale, così come è alta la percentuale di coloro che ritengono che le proprie competenze pur se pienamente utilizzate, non sono adeguatamente riconosciute, anche tra coloro che ricoprono ruoli apicali ed hanno compensi oltre i 90mila euro. Questi risultati vanno letti nel contesto che denuncia quel gap culturale che non valuta adeguatamente l’importanza strategica della comunicazione nei processi di crescita e di sviluppo.

A proposito: quanto si guadagna lavorando nella comunicazione?

C’è un divario tra il libero professionista e il dirigente d’azienda delegato alla responsabilità dell’area comunicazione. E c’è una forbice molto ampia tra dirigenti e impiegati a vari livelli di esecutività. Il settore può essere suddiviso in tre grandi segmenti: liberi professionisti (oltre il 50%), dipendenti di agenzie e studi della comunicazione (circa il 35%) e la restante percentuale dirigenti e dipendenti di industrie di altri settori. L’intervento di ManagerItalia alla realizzazione dell’indagine ha registrato una considerevole partecipazione di dirigenti di imprese. Ed è questa la ragione che spiega perché tra i risultati si evidenziano anche redditi di oltre 90mila euro lordi/anno. In realtà, il reddito medio annuo lordo del settore è sotto i 30mila euro. E chi guadagna meno dei 30mila euro anno, è molto insoddisfatto. Discorso a parte per il libero professionista, che denuncia una struttura reddituale discontinua se non precaria.

Senza distinzione di genere?

Purtroppo si registra un gender pay gap, che va interpretato con la lente di ingrandimento, perché non è solo disparità reddituale. Nonostante il settore della comunicazione veda una presenza femminile pari a quella maschile, anche qui, i ruoli apicali sono degli uomini e le donne sono “relegate” a compiti, settori e ruoli più esecutivi, soffrendo del divario notevole tra manager senior e figure di diversi livelli di responsabilità ed esecuzione.

Tante competenze sottopagate e non riconosciute appieno…

In estrema sintesi sì. Va ponderato in un contesto in cui, grazie alla digitalizzazione in continua evoluzione, i comunicatori sono costantemente sotto stress, perché devono dimostrare di essere competenti e far capire ai propri capi o clienti di essere importanti nella catena del valore dell’organizzazione. E, contemporaneamente, devono continuare a studiare, formarsi e aggiornarsi per essere al pari con le evoluzioni della digitalizzazione.

Qual è l’approccio dei comunicatori alla formazione?

Di totale disponibilità. Anzi direi che la formazione è ritenuta parte indispensabile del proprio quotidiano professionale. Il non adeguato riconoscimento delle competenze rileva la necessità diffusa di migliorare le proprie prestazioni e quindi le proprie competenze anche per gestire al meglio le relazioni in azienda, in agenzia e tra consulente e cliente. L’esigenza di formarsi e di migliorarsi è trasversale, specialmente nelle figure giovani con qualche anno di esperienza.

E qui torniamo alla Uni 11483.

Purtroppo le risposte non sono soddisfacenti: il 44,1% non sa cosa sia, il 29,1% sa che esiste ma non conosce la norma, il restante 26,8% ne è pienamente informato. La conoscenza non significa applicabilità. La norma è stata pubblicata il 9 settembre 2021 – io ho partecipato alla stesura come rappresentante di Confcommercio Imprese per l’Italia/Asseprim – ed è una vera e propria rivoluzione, perché oltre a individuare conoscenze ed abilità del comunicatore professionale, ha introdotto una novità sostanziale: il professionista della comunicazione è un manager, che gestisce processi complessi, progetta, coordina, realizza strategie e attività funzionali allo sviluppo di qualsiasi organizzazione, pubblica, privata e non profit. È un manager con responsabilità di risorse professionali e risorse economiche, impegnato a ideare e coordinare progetti finalizzati al raggiungimento degli obiettivi dell’organizzazione in cui opera, sia come dipendente che come consulente esterno. La norma, infine, ha stabilito gli elementi per la valutazione della conformità e gli aspetti etici e deontologici applicabili, nonché i percorsi per la formazione, l’aggiornamento e la certificazione professionale. In sintesi, può essere descritta con cinque parole chiave: identità, responsabilità, autonomia, complessità, deontologia. Parole chiave che portano ad  una rivoluzione culturale per una professione dai contorni ancora non ben definiti, che nonostante i deficit identitari, cresce, crea occupazione, produce valore economico ed evolve di pari passo con i processi digitali. Tutti coloro che operano nelle associazioni del settore hanno il dovere di impegnarsi in un percorso di informazione e sensibilizzazione culturale sull’importanza di questa norma e sulle ricadute che può – e deve – avere sul mercato e sulla tutela dei professionisti che vi operano. C’è molto da lavorare su questo, perché è un valore aggiunto.

Qual è il prossimo obiettivo?

Rispondere all’esigenza, espressa in modo univoco e inconfutabile dai partecipanti all’indagine, di poter far parte di un’associazione dedicata alla professione del comunicatore in Italia: il 76,5% esprime questo bisogno, chiedendo rappresentanza, tutela, servizi, formazione e gestione dei processi di certificazione. Per costruire una rappresentanza istituzionale forte ed autorevole, occorre dare una “casa” ai comunicatori che sia in grado di valorizzarne e tutelarne le competenze. Occorre individuare un minimo denominatore comune che sia alla base del dialogo e della collaborazione concreta tra tutte le associazioni della comunicazione e le confederazioni impegnate nella difesa delle professioni. E quel minimo denominatore comune sta proprio nella definizione identitaria definita dalla norma Uni. La difesa delle pensioni, la norma Uni e questa indagine sono i primi passi verso il riconoscimento professionale. Ora è responsabilità di tutto il mondo associativo agire in fretta per dar voce ai comunicatori e garantire loro tutela, autorevolezza e valorizzazione economica.

Fonte: Economy Magazine

I risultati dell’indagine sul mercato della Comunicazione

Le insoddisfazioni, le esigenze e le aspettative dei professionisti del settore

21 luglio 2022 – I risultati dell’indagine, realizzata da ReteCoM svolta in collaborazione con Manageritalia e Astraricerche, non lasciano dubbi: i Comunicatori vogliono far sentire la loro voce ed avere un ruolo preciso nel mondo delle professioni certificate. L’indagine, diramata dalle nostre associazioni ai propri soci e diffuso anche in rete attraverso i social, ha prodotto 488 risposte, volontarie e consapevoli, che hanno permesso di avere una prima radiografia del mercato della Comunicazione.

Entrando nel dettaglio, i risultati più significativi riportano come il Comunicatore professionale operi per il 48,7% nel Nord-Ovest, per il 23,2% nel Nord-est, e per il 27,1% nel Centro-Sud; solo l’1% ha risposto lavora all’estero, confermando che oltre il 70% delle attività professionali si concentrano al Nord.
La domanda in quale area professionale ci si riconosce di più, posta in due modalità –  risposta multipla e risposta unica –  rileva uno dei dati più interessanti della figura del Comunicatore professionale: un solo professionista svolge e gestisce più attività che richiedono competenze multiple; i risultati con la risposta unica, hanno registrano che la maggioranza dei comunicatori si definisce “chief communication officer”, quindi in una figura apicale, con capacità di coordinamento e responsabilità di obiettivi e risorse.

La seconda parte del questionario è stata invece finalizzata ad esprimere il proprio parere sull’attuale situazione di mercato. Ed è in questa sezione che emergono i gap più significativi, innanzitutto l’insoddisfazione reddituale, il non riconoscimento pieno delle proprie competenze, e il gender pay gap, causato non da una differenza di trattamento economico, ma da uno sbilanciamento nei ruoli, che vede le donne “relegate” in quelli più esecutivi.

L’insoddisfazione reddituale riguarda ogni livello professionale, da chi ricopre ruoli apicali e percepisce redditi di oltre 90mila euro lordi/anno, a chi guadagna meno dei 30mila euro anno. Insoddisfazione causata da una considerazione inadeguata del valore della prestazione professionale, sia che si tratti di un dipendente sia che si tratti dei liberi professionisti; in realtà quest’ultimi denunciano una struttura reddituale discontinua se non precaria.

Fil rouge delle risposte: avere una rappresentanza, avere una “casa” per i Comunicatori. Il 76,5% di coloro che hanno partecipato all’indagine hanno espresso la necessità di un’associazione dedicata alla professione del Comunicatore, chiedendo rappresentanza, tutela, servizi, formazione e gestione dei processi di certificazione.

Fonte: ReteCoM

European Communication Monitor 2022: i principali highlights

Ferpi, l’associazione che rappresenta in Italia i professionisti delle Relazioni Pubbliche e della Comunicazione, sintetizza i principali highlights dell’European Communication Monitor 2022. Di seguito l’articolo completo.

 

Molti professionisti della comunicazione europei trascurano i dibattiti sulla diversità e l’inclusione; qualità della consulenza e uso delle tecnologie sono tra i temi più rilevanti. È stata pubblicata l’edizione 2022 dello studio empirico più approfondito sulla comunicazione e sulle relazioni pubbliche.

Sono stati pubblicati i risultati dell’Osservatorio europeo della comunicazione 2022. Quella di quest’anno è l’indagine più ampia sul mondo della comunicazione, basandosi su 1.672 interviste a professionisti della comunicazione provenienti da 43 Paesi europei.

Il rapporto completo è disponibile gratuitamente su www.communicationmonitor.eu e fornisce preziosi spunti per le relazioni pubbliche, la corporate communication e i public affairs.

Lo studio esamina come le evoluzioni sociali e culturali della contemporaneità siano state affrontate e implementate  all’interno nella comunità professionale dei comunicatori: dall’ambizione di riconoscere diversità, uguaglianza e inclusione, fino alla tendenza verso uno stile di leadership più empatico, dalla digitalizzazione dei dipartimenti comunicazione e delle agenzie di comunicazione, fino alle dinamiche consulenziali, con un focus sulle eccellenze ed analisi più dettagliate per 22 paesi.

L’italiana Stefania Romenti, Presidente di EUPRERA, parte dai numeri che provano la solidità dello European Communication Monitor: “16 anni di storia, oltre 1600 rispondenti, 43 i paesi dove sono stati raccolti i dati. Questi i numeri dell’Edizione 2022 dell’ECM, che continua a essere una delle più preziose fonti di informazione per il monitoraggio della professione dei comunicatori. La lettura dei dati rappresenta un importante momento di riflessione su dove sta andando la comunicazione oggi, quali sono le tendenze emergenti e gli aspetti più consolidati.”

La rigorosa selezione dei partecipanti ed il quadro di ricerca unico, basato su teorie consolidate e analisi statistiche, sono infatti le caratteristiche chiave dello studio che ancora una volta è stato condotto e supportato da un team globale di professori di comunicazione e relazioni pubbliche provenienti da università di tutto il mondo.

Il professor Ansgar Zerfass, ricercatore a capo dello studio e professore dell’Università di Lipsia, sottolinea: “Siamo attualmente sta vivendo una svolta in Europa. Molti concetti che ieri erano considerati scontati sono ora sotto scrutinio: la pacifica convivenza di nazioni e persone nella nostra regione, il ruolo della politica e dei media come attori di integrazione della società e la capacità dell’economia di guidare l’innovazione e lo sviluppo sostenibile. Queste dinamiche hanno un impatto enorme sul nostro campo, e sulla gestione della comunicazione delle organizzazioni. Se alcune tendenze sono piuttosto specifiche, diverse sono comuni a tutta Europa, come ci mostra questa edizione dello European Communication Monitor.”

Kim Larsen, Global Head of Communication and Brand Experience di ING e Presidente di EACD – European Association of Communication Directors, aggiunge: “In tempi di crisi, disruption e sfiducia, la comunicazione strategica è chiave per creare un terreno comune e una comprensione condivisa ove possibile. E se – come vediamo – c’è una sfiducia crescente nelle diverse società, se i fatti e le istituzioni sono messi in discussione,  i comunicatori possono assumere un ruolo fondamentale. Lo European Communication Monitor di quest’anno ha studiato argomenti in grado di influenzare l’efficacia della nostra professione negli anni a venire”.

Diversità, uguaglianza e inclusione come sfida per la professione

La 16a edizione dell’Osservatorio europeo della comunicazione esplora se e come il dibattito sulla diversità, l’uguaglianza e l’inclusione risuona nella pratica quotidiana della gestione della comunicazione in Europa. I risultati mostrano che solo un professionista su due ha seguito le tendenze e le discussioni globali (50,7%) sul tema. Circa lo stesso numero di intervistati conferma che la DE&I è molto discusso nel proprio Paese (49,5%). Un’organizzazione su due tiene conto dell’età, dell’etnia e del sesso durante la pianificazione e l’esecuzione della comunicazione iniziative. Invece hanno meno attenzione stato socioculturale, disabilità, visioni del mondo e opinioni politiche e convinzioni spirituali. La maggior parte dei professionisti riconosce che la diversità può avere un impatto sulla fiducia con stakeholder esterni ed interni, tenendo in considerazione attentamente i fattori di diversità durante la produzione di contenuti.

Durante i periodi di crisi, come la pandemia di COVID-19, si è discusso molto sul fatto che i leader delle organizzazioni possano e debbano comunicare con maggiore empatia. L’indagine esplora questo fenomeno insieme all’effetto leadership empatica ha sulla salute mentale, l’impegno e il benessere.

Tre professionisti della comunicazione su quattro (73,3%) testimoniano i tratti empatici della leadership communication e la maggior parte degli intervistati (56,7%) ammette che questa tendenza è aumentata nell’ultimo anno durante la pandemia. Un dato incoraggiante mostra che solo l’1% dei colleghi pare essere a rischio di burnout. La cosa più importante è che i professionisti che lavorano per un leader empatico in un dipartimento di comunicazione o agenzie sono significativamente più ingaggiati e mostrano migliori livelli di salute mentale.

Consulenza esterna in comunicazione: complessità, qualità e tendenze

La maggior parte dei professionisti della comunicazione in Europa ritiene che il bisogno di consulenza da parte degli stakeholder sia in aumento. Allo stesso modo, il 63,9% degli intervistati percepisce che il settore della consulenza è divenuto sempre più diversificato e complesso, e il 60,1% afferma che garantire la qualità della consulenza esterna sta diventando sempre più difficile. Alla domanda su quale sia la  dimensione più importante per garantire la qualità dei processi di consulenza, gli intervistati mettono le persone e il know-how dei consulenti al primo posto (l’89,9% lo considera importante o molto importante), seguito dalla capacità di project management (87,7%).

Una forte maggioranza di professionisti della comunicazione in Europa sostiene l’idea di riconoscere standard di qualità in ambito: il 67,8% è d’accordo con l’affermazione che la professione ha bisogno di standard generali per la valutazione dei consulenti e per garantire la qualità della consulenza nella comunicazione, mentre il 60,7% ritiene che anche la professione abbia bisogno di standard riconosciuti dai clienti.

CommTech e la trasformazione digitale delle comunicazioni

Scoperta piuttosto sorprendente di questo studio è che solo un terzo (35,5%) dei professionisti della comunicazione in tutta Europa hanno seguito da vicino il dibattito sull’utilizzo di software e servizi per la digitalizzazione della loro funzione (CommTech). Un po’ più della metà (55,2%) ritiene che queste tecnologie cambieranno la professione di comunicazione, i dipartimenti di comunicazione o le agenzie per cui lavorano, oltre al modo in cui lavorano personalmente. Ma ci sono enormi differenze tra paesi, senza una chiara tendenza regionale. Quando si tratta di valutare i rischi, un terzo di tutti gli intervistati pensa che le nuove tecnologie di comunicazione presentino svantaggi per la comunicazione con gli stakeholder.

La riluttanza ad affrontare il tema a livello individuale corrisponde ad un moderato livello di digitalizzazione dei dipartimenti e delle agenzie di comunicazione. Solo pochissime (6,2%) di queste unità hanno digitalizzato tutte le loro attività principali e stabilito un uso molto avanzato di CommTech. A parte questi innovatori, molti restano indietro nella pratica. Le sfide più grandi in l’adozione di CommTech non sono problemi tecnologici (es. prestazioni del software) o fattori umani (es. mancanza di competenze tra i comunicatori), ma fattori che indicano deficit organizzativi all’interno delle diverse strutture.

Spesso le attività e i processi di comunicazione non sono preparati per la digitalizzazione (38,5%).  Gli ostacoli menzionati sono strutture e culture poco flessibili, oltre alla mancanza di collaborazione coni dipartimenti IT (44,7%).

Highlights

Lo European Communication Monitor 2022 ha coinvolto professionisti della comunicazione in 43 paesi, ecco i principali highlights:

  • Diversità, uguaglianza e inclusione stanno influenzando le politiche organizzative e le comunicazioni in tutto il mondo, ma solo un comunicatore su due in Europa ha seguito da vicino le tendenze e le discussioni globali in questo settore
  • La maggior parte dei professionisti ha sperimentato tratti empatici dai leader della comunicazione; questo ha un significato impatto positivo sull’impegno, sul coinvolgimento e sulla salute mentale
  • Ad oggi, pochissimi dipartimenti di comunicazione hanno stabilito un uso avanzato delle tecnologie di comunicazione digitalizzando flussi di lavoro interni e attività di comunicazione – le strutture organizzative sono identificate come l’ostacolo principale alla rapida trasformazione
  • La qualità della consulenza nelle comunicazioni è difficilmente riconosciuta; tre intervistati su quattro vorrebbero vedere standard condivisi dai consulenti e dai clienti stessi.

Lo studio rivela differenze significative tra Paesi europei, così come tra aziende e organizzazioni non profit 

Fonte: Ferpi.it

Articolo di Biagio Oppi

Il 58% delle imprese del terziario vuole assumere. Ma 8 su 10 non trovano personale

I problemi maggiori per ricettività/accoglienza, servizi e ristorazione. Mancano soprattutto camerieri, commessi, cuochi e addetti alle pulizie. Leggi il comunicato completo di Confcommercio Milano, Lodi, Monza e Brianza 

Reddito di cittadinanza indicato dalle aziende come ostacolo più importante alla nuova occupazione

Marco Barbieri, segretario generale Confcommercio Milano, Lodi, Monza e Brianza: rivedere le politiche per il lavoro. Servono più formazione e incentivi maggiori per le imprese che assumono

Il 58% delle imprese del terziario a Milano, Lodi, Monza e Brianza prevede quest’anno di fare nuove assunzioni. Ma l’81% ha forti difficoltà nel reperire personale. Tra le cause di queste difficoltà il 68% indica l’indisponibilità dei potenziali lavoratori a lasciare il reddito di cittadinanza. È quanto emerge dai dati (elaborati dall’Ufficio Studi) dell’indagine di Confcommercio Milano, Lodi, Monza e Brianza con le risposte di 613 imprese* in prevalenza della ristorazione (29%), dei servizi (19%) del dettaglio non alimentare (17%) e della ricettività/accoglienza (7%) variamente distribuite come numero di occupati: il 60% fino a 5 addetti, il 37% da 6 a 49 addetti, il 3% dai 50 addetti in su.

DOVE LE NUOVE ASSUNZIONI – La previsione di nuove assunzioni in questo 2022 è indicata in particolare nella ricettività/accoglienza (86%), nella ristorazione (74%) e nei servizi (71%). L’incremento degli occupati è stimato entro il 10% per il 72% del campione. Più alto della media per dettaglio non alimentare (79%), servizi (76%) e ricettività/accoglienza (75%), il 68% per la ristorazione.

E DOVE NON SI TROVA PERSONALE – Se l’81% delle imprese che intendono assumere ha
segnalato difficoltà nel reperire personale, i maggiori problemi di reperimento di nuovi addetti si registrano nella ricettività/accoglienza (95%), nei servizi (90%), nella ristorazione (88%).

LE FIGURE PROFESSIONALI PIÙ RICHIESTE – Nella ristorazione camerieri e personale di
sala (65%) poi cuochi e addetti alla cucina (52%). Nel dettaglio non alimentare commesse/i (72%) e addetti alle attività amministrative (22%). Nella ricettività receptionist/addetti all’accoglienza (65%), camerieri e personale di sala (54%), addetti alle pulizie (42%).

PERCHÈ NON SI TROVA PERSONALE – Il 68% delle imprese ha indicato, nei potenziali lavoratori, l’indisponibilità a lasciare il reddito di cittadinanza; il 66% l’indisponibilità a orari/giorni proposti; il 60% perché la retribuzione è giudicata troppo bassa e il 54% la mancanza di competenze di base di chi è alla ricerca di lavoro. “Nonostante guerra in Ucraina, caro energia, crescita dell’inflazione e calo dei consumi, la maggioranza delle imprese del terziario crede ancora nella ripresa e prevede di
investire nel personale. Ma reddito di cittadinanza e mancanza di competenze – rileva Marco Barbieri, segretario generale di Confcommercio Milano, Lodi, Monza e Brianza – sono fra gli ostacoli più rilevanti allo sviluppo di nuova occupazione. Vanno riviste le politiche per il lavoro. Servono più formazione e incentivi maggiori per le imprese che assumono”.
*Il 75% da Milano città e hinterland.

I GRAFICI DELL’INDAGINE (A CURA DELL’UFFICIO STUDI)

Fonte: Confcommercio – Milano, Lodi, Monza e Brianza

OBE Summit 2022: il branded entertainment content è sempre più rilevante

Torna la settima edizione dell’OBE Summit 2022, l’appuntamento annuale più rilevante per tutto il settore della Comunicazione e del Marketing interamente dedicato al mercato del BC&E in Italia. L’evento è organizzato da OBE – Osservatorio Branded Entertainment, l’Associazione che studia e promuove la diffusione sul mercato italiano del branded content & entertainment come leva strategica per la comunicazione integrata di marca.

L’edizione 2022 , “Entertainment makes impact”, vede Google come Gold Sponsor dell’evento ed è pensata per sottolineare e indagare l’impatto del BC&E nell’economia (“Business Impact”) e nella società (“Social Impact”). “Business Impact” approfondisce la parte più strettamente economica del settore del BC&E, in termini di valore del mercato, dei principali trend e delle nuove opportunità di comunicazione, offerte anche dallo sviluppo tecnologico, nella creazione di una relazione di valore tra i brand e le audience. In “Social Impact”, invece, si discute su come il BE possa rivestire un ruolo essenziale nella costruzione di una società più solidale, equa e sostenibile, attraverso la diffusione di narrazioni basate sui valori di interesse della comunità e utili a produrre cambiamenti socio-culturali.

La principale innovazione di questa edizione di OBE Summit è rappresentata dalla sezione “Impacting People”, istituita per riconoscere e premiare il contributo di professionisti che hanno costruito valore e impatto positivo sulla società.

L’apertura di Laura Corbetta, Presidente di OBE e CEO e Founder di YAM112003, che ha sottolineato in particolare l’importanza di una sempre maggiore attenzione nei confronti delle persone in questo momento storico difficile e di grandi trasformazioni, ha altresì evidenziando ai nostri microfoni come “Sia necessario creare nelle aziende di comunicazione competenze di alto livello e trasversali per gestire l’efficacia di questo strumento che si prospetta come una delle leve principali nel prossimo futuro per agganciare l’attenzione, molto contesa, dei consumatori. La sua efficacia risiede proprio nell’essere uno strumento “pop”, che si posiziona in modo sempre più rilevante in termini di impatto di business, di impatto sociale e culturale del mercato”.

Il racconto di OBE è poi proseguito con Erik Rollini, responsabile dei OBE Insight Hub, Consigliere OBE e Managing Director Mediacom, per la presentazione della Ricerca sul Mercato del BE 2021/2022 in Italia condotta da OBE e BVA Doxa in partnership con RTI.

La ricerca, unica sul mercato Italiano a tracciare il perimetro del BE da un punto di vista del valore, mostra un settore in costante crescita che, seppur con una lieve flessione nel 2020 circoscrivibile al primo anno della pandemia, non si è mai arrestato. Nelle campagne dei brand, il BE si afferma sempre più come strumento capace di interpretare al meglio le narrazioni di riferimento, al punto che l’80% delle aziende intervistate afferma di aver realizzato almeno un progetto di BE nel 2021. Alcuni dei numeri che meglio di qualsiasi altra cosa fotografano il mercato: tra il 2020 e il 2021, la crescita è pari al 14%, con un valore complessivo che raggiunge i 568 milioni di euro e una previsione per il 2022 di un ulteriore +9%, che porta il settore del BE ad attestarsi intorno ai 619 milioni di euro. La Tv resta padrona della scena, raccogliendo il 37% del totale dei budget, seguita dal 22% dei social media e dagli altri mezzi, tra cui resiste al 5% il cartaceo.

Rollini ha sottolineato come: “Il BCE offre il vantaggio di uscire dall’affollamento pubblicitario. Molti consumatori potrebbero decidere, avendo sempre lo smartphone in mano, di evitare la comunicazione. La comunicazione invece, se fatta bene, integrata, in armonia col contesto, può essere una forma evoluta di relazione informativa e di intrattenimento che attrae interesse e attenzione. Non a caso il BCE cresce continuativamente a prescindere dalle condizioni macro economiche, forse anche perché è uno strumento di comunicazione molto “naturale”, che permette di raccontare qualcosa in più del brand, qualcosa di più profondo, che dà più spazio per narrare i valori dell’azienda.”

Nel prosieguo della mattinata, l’intervento di Maria Teresa CapobiancoPartner PwC ItaliaMedia and Telecommunications Leader, dal titolo “I principali trend nel mercato Entertainment & Media”, seguito dal panel “Impact on Budget”, con Francesca Costanzo, Managing Director OMD, Andrea di Fonzo, Chief Media Officer di Publicis Groupe Italy & CEO Publicis Media Italy, Alessandra Giaquinta, Chief Client Officer Dentsu Italia, Zeno Mottura, CEO Mediacom e Stefano Spadini, CEO Havas Media Group.

A seguire, gli interventi di Francesca MortariDirector YouTube Southern Europe“From Opportunity to Impact. Come la tecnologia contribuisce alla crescita dell’economia, della società e della cultura”, e “Catch it if you can. L’attenzione e le scelte di intrattenimento della Gen Z”, nel quale Elena MarinoniHead of Trend Research di Next Atlas, ha delineato i tratti distintivi che contraddistinguono la Gen Z rispetto all’entertainment.

I lavori sono poi proseguiti con “Impact on Strategy”, il panel focalizzato sulle strategie dei brand al quale hanno preso parte Massimiliano CariolaDirettore Marketing di Porsche Italia, e Claudia ErbaBrand Communication Director di WINDTRE. A chiudere la mattinata, l’intervista a Laura CarafoliSVP Chief Content Officer di Warner Bros Discovery.

Nel pomeriggio, l’apertura è con il keynote speech di Luca BernabeiAmministratore Delegato di Lux VideA seguire “Impact on Audience”, il panel dedicato agli editori, con Andrea SantagataDirettore Generale di Mondadori MediaMario CalabresiCEO & editor-in-chief di Chora Media, e Nicoletta BesioSales Director di Twitch.

In chiusura dei lavori di OBE Summit, i contributi che più avvicinano la leva del BC&E alla sensibilità delle audience: “Impact on Culture”, con Freeda e RAI, “Impact on Society”, con Mattel, Philadelphia e la campionessa paralimpica Arianna Talamona, “Impact on Content”, con la partecipazione di Cathy La TorreRossella Migliaccio e Maccio Capatonda. E, per concludere, la consegna degli OBE Honor Awards.

“Siamo davvero entusiasti del successo dell’appuntamento di oggi, con un’adesione straordinaria e grande ricchezza di contenuti. – commenta Laura CorbettaPresidente di OBE e CEO e Founder di YAM112003 – L’Osservatorio è alla sua prova di maturità e dimostra di aver completato un percorso di crescita significativo, riuscendo sempre più a proporsi come punto di riferimento dell’intero comparto del BE e affermandosi come polo di incontro e di confronto per i maggiori player di questo mercato.

“Tra i nostri principali obiettivi c’è la creazione di valore per i nostri Associati e per tutto il mercato del BC&E attraverso attività di ricerca e formazione, e il continuo confronto con tutti gli stakeholder di riferimento. – commenta Simonetta Consiglio, Direttrice Generale di OBE – Con OBE Summit ogni anno scattiamo un’istantanea del mondo del BE per fotografare lo scenario attuale, ma anche per stimolare una riflessione sui possibili trend futuri con gli attori che agiscono in questo mercato e ne determinano sviluppi e cambiamenti. Il settore è in continua crescita e il BE si conferma una leva strategica di comunicazione per le aziende che vogliono conquistare l’attenzione della propria audiance con narrazioni innovative e ingaggianti. Come Osservatorio attraverso le nostre attività proseguiremo con la promozione del BE e nel rappresentare il luogo di incontro privilegiato per discutere e approfondire tutti i temi legati a questa leva di comunicazione”. Ma non vogliamo certo fermarci qui. L’obiettivo resta quello di continuare ad alzare l’asticella, impegnandoci nel cogliere e studiare i cambiamenti del mercato del BC&E e nel proseguire con una proposta di servizi e momenti formativi che possa essere di valore per i brand e per tutti gli attori coinvolti. Le analisi condotte e le testimonianze raccolte in questo settimo appuntamento con OBE Summit hanno dimostrato la vitalità del mercato e la sua costante crescita. I brand hanno raggiunto una maggiore consapevolezza sulle potenzialità del branded content e entertainment, nello stimolare e coinvolgere il pubblico attraverso una modalità meno invasiva e, al contempo, più funzionale alla narrazione, e stanno imparando a integrarli come una soluzione strategicamente rilevante del marketing mix”.

Fonte: ADV Express

Osservatorio del Terziario: crescita e produttività

L’ultimo report dell’Osservatorio del Terziario di Manageritalia focalizza l’attenzione sulla produttività, con un confronto a livello europeo, e si pone con forza al centro del dibattito sullo sviluppo. Leggi l’articolo completo di Manageritalia

L’ultimo report dell’Osservatorio del Terziario di Manageritalia dal titolo “CRESCITA DEL TERZIARIO E PRODUTTIVITÀ. Confronto europeo dal 2000 a oggi” è stato prima tra i protagonisti del Festival dell’Economia Internazionale di Torino con una sessione dedicata e poi è entrato con forza nel dibattito sulla crescita con un articolo di Ferruccio de Bortoli su l’Economia del Corriere della Sera.

Vediamo allora, prima della sintesi dei risultati, alcune delle considerazioni che emergono e che si possono riassumere nell’obiettivo di investire sul terziario per far crescere tutta l’economia.

Alcune considerazioni emerse dall’analisi dei dati
L’ultimo report dell’Osservatorio Terziario di Manageritalia evidenzia, nel periodo 2000-2019 (preso in esame per neutralizzare l’effetto Covid), per il terziario di mercato italiano un gap di crescita in termini di valore aggiunto prodotto rispetto agli altri paesi europei. Tra le cause individuiamo la composizione demografica della forza lavoro, minori ore lavorate complessivamente e minore efficienza nei processi produttivi.

• Il Terziario costituisce una porzione largamente maggioritaria e crescente del Pil delle economie avanzate, con circa il 73% del Pil prodotto in Italia e nei paesi dell’Eurozona. Dato il peso del Terziario di mercato sul Pil è impensabile migliorare la produttività del sistema Italia in assenza di un significativo aumento della produttività dei servizi;
• Pur continuando a presentare una crescita pressoché doppia del resto dell’economia italiana, il Terziario di mercato ha rallentato rispetto ai partner europei dal 2014 al 2019, anni in cui la manifattura italiana ha invece trovato supporto per il suo processo di efficientamento della base produttiva anche dal pacchetto di incentivi Industria 4.0. Serve quindi supportare anche il terziario nelle trasformazioni in atto;
• Emerge forte la necessità di maggiori competenze (in generale e in particolare in ICT e APTS);
• La performance della crescita del Commercio è legata alle riforme di liberalizzazione e maggiore concorrenza;
• La performance negativa di APTS e ICT è in gran parte legata da un gap nel campo dell’adozione e nell’utilizzo di tecnologie sofisticate (Big Data e IA).

Sintesi dei principali dati emersi
Il valore aggiunto del terziario di mercato italiano nel periodo 2000-2019 è cresciuto del 14% (tasso di crescita medio annuo del +0,7%, industria -1%). Un buon risultato, per il Terziario di mercato italiano, ma comunque inferiore di circa il 20% rispetto al tasso medio di crescita degli altri paesi europei.
I fattori che hanno maggiormente contribuito a questo ritardo sono: la qualità della forza lavoro (con minore livello di istruzione e competenze), una minore crescita del numero complessivo delle ore lavorate e una minore efficienza nei processi produttivi (Total Factor Productivy). Anche la produttività del lavoro, misurata come valore aggiunto per ora lavorata, accusa un ritardo importante rispetto alla media Eurozona. Questo il risultato dell’ultima approfondita analisi sulla produttività del terziario di mercato sviluppata dall’Osservatorio Terziario di Manageritalia in stretta collaborazione con l’Ufficio Studi di Banca Intesa.
In particolare, nel periodo successivo alla crisi del debito (2014-2019), la produttività del lavoro nel terziario di mercato in Italia è cresciuta il 5% in meno rispetto ai principali competitors europei, a differenza del settore manifatturiero, nel quale la produttività del lavoro è cresciuta allo stesso ritmo della media europea.

Un gap nel livello della produttività del lavoro che non riguarda tutti i settori del terziario, come evidenzia il report. Infatti, mentre i servizi finanziari/assicurativi e, al contrario di quanto spesso si ritiene, il commercio all’ingrosso e al dettaglio sono in linea con i principali competitors europei, il livello di produttività del lavoro dei servizi di informazione e comunicazione (ICT) e delle attività professionali, tecniche e scientifiche (APTS) mostra un marcato ritardo rispetto alla media europea (circa 15 punti in meno di valore aggiunto per ora lavorata in entrambi i casi).

Emerge, quindi, come per alcuni comparti sia necessario attuare politiche di deregolamentazione e miglioramento della qualità della forza lavoro (istruzione e formazione) per arrivare ad un recupero di produttività dell’intero sistema paese in tempi relativamente brevi.

Basti pensare che, in termini di produttività del lavoro, la performance positiva dell’Italia nei servizi finanziari e assicurativi è dovuta a una crescita dell’efficienza dei processi produttivi (TFP), associabile alla massiccia ristrutturazione del settore, che ha implicato maggiore concentrazione e apertura alla concorrenza internazionale. Anche per il commercio all’ingrosso e al dettaglio la performance positiva dell’Italia è in gran parte dovuta ad una crescita marcata dell’efficienza dei processi produttivi (TFP), cresciuta ad un ritmo addirittura superiore rispetto ai principali competitors europei dal 2010 in avanti.

Tra i settori meno virtuosi, che hanno avuto un ritardo importante nella crescita della produttività del lavoro, spiccano proprio i servizi ICT e le attività professionali, che nelle moderne economie sono tra quelli a più alto potenziale di crescita e hanno un ruolo trainante ed innovativo per tutta l’economia.

In entrambi questi settori (servizi ICT ed attività professionali), si osserva in Italia una propensione agli investimenti in linea con i competitors europei, ma una forza lavoro decisamente meno istruita che impatta negativamente sull’efficienza dei processi produttivi (TFP). C’è anche un ritardo del nostro paese nell’adozione di tecnologie ed innovazioni di processo in grado di far crescere l’efficienza dei processi produttivi (TFP). In particolare, il ritardo riguarda l’utilizzo dei big data e dell’intelligenza artificiale – mentre l’Italia risulta in linea con gli altri paesi nell’adozione di tecnologie di base (cloud). Anche questa evidenza sottolinea il ritardo nel livello di competenze italiane, essendo l’adozione di tecnologie più sofisticate (Big Data e IA) strettamente connessa alla presenza di conoscenze più avanzate all’interno delle aziende.

Il gap presente nelle situazioni di minore performance di alcuni nostri comparti del terziario di mercato in termini di produttività rispetto ai principali competitors europei è spesso dovuto alla Total Factor Productivity (TFP). Questa considera tutto quanto determina l’aumento della produttività al netto dei fattori di capitale e lavoro ed è determinata principalmente da Ricerca e Sviluppo, adozione di nuove tecnologie, innovazione nel processo produttivo e nei modelli organizzativi, riallocazione di risorse, sviluppo di economie di scala e di scopo.

L’ultimo report dell’Osservatorio del Terziario di Manageritalia dal titolo “CRESCITA DEL TERZIARIO E PRODUTTIVITÀ. Confronto europeo dal 2000 a oggi” è stato prima tra i protagonisti del Festival dell’Economia Internazionale di Torino con una sessione dedicata e poi è entrato con forza nel dibattito sulla crescita con un articolo di Ferruccio de Bortoli su l’Economia del Corriere della Sera.

Fonte: Manageritalia

Cala la pubblicità sulla stampa in aprile. Quotidiani -1,3%, mensili -5,2%

In Aprile calano gli investimenti pubblicitari sulla stampa. Leggi l’articolo completo di PrimaOnline.

I dati dell’Osservatorio Stampa FCP relativi al periodo di Gennaio-Aprile 2022 raffrontati con i corrispettivi 2021.

Il fatturato pubblicitario del mezzo stampa in generale registra un decremento del -1,3%.

In particolare i quotidiani nel loro complesso registrano un andamento a fatturato del -1,3%.
Le singole tipologie segnano rispettivamente:
La tipologia Commerciale nazionale ha evidenziato +1,9%.
La pubblicità Commerciale locale +2%.
La tipologia Legale ha segnato -3,5%.
La tipologia Finanziaria ha segnato +1,3%.
La tipologia Classified ha segnato -17,1%.

periodici nel loro complesso registrano un andamento a fatturato del -1,4%.
Le singole tipologie segnano rispettivamente:
Settimanali +0,7%
Mensili -5,2%.
Altre Periodicità +15,0%.

Fonte: Redazione PrimaOnline

FEDERORAFI – rilevazione campione di aziende: nel 2021 +54,6 rispetto al 2020 e positive attese per il 2022 ma minate da prezzi materie prime e dell’energia.

 

 

FEDERORAFI – rilevazione campione di aziende: nel 2021 +54,6 rispetto al 2020 e positive attese per il 2022 ma minate da prezzi materie prime e dell’energia.

PIASERICO: sentiment positivo ma ancora imprevedibili le ripercussioni del conflitto russo-ucraino.

 

Milano, 8/3/22

Chiusura 2021

Secondo le stime elaborate dal Centro Studi di Confindustria Moda per FEDERORAFI per il settore orafo-argentiero-gioielliero è atteso un recupero medio annuo del turnover nell’ordine del +54,6% (in rialzo rispetto alle precedenti stime rilasciate ai primi di dicembre ovvero +46,5%). Considerando che nel 2020 il fatturato si era portato sui circa 5,7 miliardi di euro, la dinamica 2021 si traduce in un incremento di 3,1 miliardi. La stima attuale vedrebbe dunque le vendite complessive riportarsi sugli 8,8 miliardi di euro. Si tratta di un recupero importante e che porta a sorpassare (complice il rialzo dei prezzi dell’oro e degli altri metalli preziosi) del +11,9% (corrispondente a quasi 940 milioni in valore assoluto) i livelli del 2019. Nonostante il sorpasso complessivo, un quadro molto più eterogeneo (a conferma di una ripresa settoriale «a macchia di leopardo») emerge dall’analisi del raffronto con il pre-Covid per le diverse aziende a campione, specie in relazione alla dimensione media. Il superamento dei livelli di fatturato dell’anno 2019 interessa solo il 62% del panel: di queste aziende, il 35% ha raggiunto livelli «molto superiori», mentre il 27% si è portato su valori di «poco superiori». Il 15% del campione mostra, invece, di aver ripianato le perdite, con vendite invariate rispetto al 2019. Nonostante le buone performance del 2021, resta una discreta fetta di aziende OAG che non è, invece, riuscita a colmare il gap. Più in particolare, il 4% del totale resta «di poco» al di sotto del corrispondente fatturato pre-Covid. Maggior difficoltà ha incontrato il restante 19%, che indica di aver chiuso l’anno 2021 su livelli «molto inferiori» rispetto al 2019. Tra le aziende più lontane dai livelli pre-Covid si annoverano soprattutto quelle di piccola dimensione: eccetto una sui 10 milioni, le altre fatturano tutte «meno di 5 milioni di euro». I risultati di queste piccole, come anticipato, non pregiudicano il ritorno del settore in area positiva.

Nel corso del 2021 l’evoluzione positiva del fatturato è stata accompagnata da un recupero anche delle attività produttive, in termini fisici e non solo monetari. Con specifico riferimento al settore O-A-G, la stima relativa ai dati forniti dalle aziende a campione porta a quantificare un recupero su ritmi vivaci ma meno intensi, nella misura del +32,3% su base annua. Sempre con riferimento al 2021, in base a quanto emerso dall’Ottava Indagine Impatto Covid sul settore TMA elaborata dal Centro Studi di Confindustria Moda, il 44% delle aziende a campione dichiara di aver incrementato il proprio organico. Per il restante 50% il numero di dipendenti al 31/12/2021 coincide con quello al 31/12/2020, mentre solo per il restante 6% dei casi – indicano una riduzione del personale.

Prima parte 2022
Relativamente al primo trimestre dell’anno in corso, le aziende a campione – nel 53% dei casi – si attendono una crescita del fatturato rispetto al medesimo periodo del 2021. Il 9% prevede un aumento «tra il +1% e il 5%», il 24% pensa di crescere «tra il +5% e il 10%», segnando un ritorno quindi su ritmi in linea con condizioni di mercato «normali» dopo il rimbalzo post-Covid. Il 13% prospetta comunque aumenti «tra il +10% e il +20%», il 7% «tra il +20% e il +50%». Si rivela più prudente il 31% del campione, secondo il quale le vendite resteranno sui livelli del gennaio-marzo 2021. Infine, il 16% teme una flessione del proprio fatturato rispetto ad allora. L’incremento medio nel campione, in netta decelerazione rispetto ai tassi del 2021, è stimato attorno al +7,3%. Analogamente a quanto rilevato per il quarto trimestre, anche con riferimento al primo trimestre del 2022, la quota di aziende che intende far ricorso agli ammortizzatori sociali resta confinata all’8% del totale. Per raffronto si pensi che nel gennaio-marzo 2021, invece, il ricorso alla CIG aveva interessato il 51% del panel. Nonostante il miglioramento dell’evoluzione congiunturale, il percorso resta minato da diversi fattori che condizionano l’operatività aziendale. Si ricordi, peraltro, che la rilevazione è antecedente allo scoppio del conflitto Russia-Ucraina, che quindi non compare tra le opzioni sottoposte alle aziende. Ad ogni modo, per quasi 7 aziende su dieci l’aumento dei prezzi delle materie prime costituisce una grave minaccia. Non di meno, per 6 aziende su 10 l’aumento di costi dell’energia avrà conseguenze negative di non poco conto sulla marginalità aziendale. Per il 58% del campione anche le restrizioni agli spostamenti internazionali delle persone (business e/o turismo) rappresentano un freno importante. L’assenza dei lavoratori per motivi legati al Covid preoccupa il 38% del panel.  Le difficoltà di reperimento di materie prime e semilavorati presentano – a oggi – un minor impatto, limitatamente al 22% dei rispondenti. Infine, l’aumento del costo dei noli e dei trasporti è avvertito da 1 azienda su 10.

Indagando più specificatamente il sentiment delle aziende circa l’evoluzione congiunturale nel primo trimestre, un significativo 59% confida in una stabilità delle condizioni di mercato rispetto all’ultima frazione del 2021. Un 14% prospetta, invece, un miglioramento ulteriore. Il 27% del panel teme, invece, che la congiuntura settoriale possa peggiorare; il 69% di queste aziende appartiene alla classe con fatturato annuo inferiore ai 5 milioni di euro. I dati dell’indagine confermano le indicazioni che la Presidente FEDERORAFI Claudia Piaserico aveva anticipato nelle scorse settimane.

Per Claudia Piaserico: “Gli imprevedibili sviluppi del conflitto rischiano di compromettere il positivo trend del settore. L’area interessata dalla guerra rappresenta poco meno dell’1% delle esportazioni del gioiello made in Italy ma occorre tener conto che i russi sono importanti acquirenti di gioielli quando si recano all’estero. Il timore è chiaramente dovuto alle conseguenze economiche e psicologiche a livello globale del conflitto, soprattutto se dovesse durare a lungo. L’ormai prossima manifestazione di VicenzaOro (17-21 marzo) sarà sicuramente un primo importante momento di verifica così come le iniziative che stiamo approntando su diversi mercati come l’innovativo progetto riservato al mercato USA riguardante la piattaforma fisica ed online “PIAZZA ITALIA” che con ICE lanceremo a breve a New York.”

In allegato il testo comprensivo di tabelle: 2022_03_08_CS FED indagine campione aziende_DEF

Fonte: Federorafi

Ucraina, Casasco: le PMI europee temono anche per la ripartenza

Preoccupazione tra gli imprenditori, Casasco (PMI europee): si rischia un conflitto quando ancora non sono stati superati gli effetti della crisi Covid.

Anche il mondo delle imprese sta guardando all’escalation della crisi in Ucraina con particolare tensione. A farsene portavoce è Maurizio Casasco, presidente di Confapi (piccola e media industria italiana) e di CEA-PME, la Confederazione europea che raccoglie le associazioni di 26 Paesi, in rappresentanza di oltre 2 milioni di PMI.

Quanto sta accadendo in queste ore in Ucraina, ha dichiarato Casasco, desta sgomento e preoccupazione nei cittadini e negli imprenditori europei.

Si rischia un conflitto nel cuore dell’Europa in un momento in cui non si sono ancora del tutto superati i terribili effetti della crisi pandemica e mentre la piccola e media industria, caposaldo dell’economia del Continente, sta lavorando alacremente alla ripresa.

Dopo l’attacco militare della Russia, pertanto, anche l’auspicio delle imprese è che si possa arrivare ad una soluzione diplomatica che impedisca l’escalation militare.

Intanto, il Governo italiano è impegnato sul fronte politico-economico a coordinarsi con i Paesi alleati (tra vertici UE, G7 e NATO) per una risposta chiara e univoca di condanna nei confronti dell’attacco della Russia.

Il Presidente del Consiglio Mario Draghi, nella giornata di giovedì 24 febbraio, ha partecipato prima ad un Consiglio dei Ministri sulla gestione della crisi, poi alla riunione del G7 (in videoconferenza) e al Consiglio Supremo di Difesa al Quirinale, mentre in serata è stato indetto a Bruxelles un Consiglio europeo straordinario. Venerdì 25 febbraio il premier terrà un’ informativa in Parlamento per fornire tutti gli aggiornamenti sul conflitto e sulle sanzioni contro la Russia.

La conferma della strategia intrapresa a livello globale è sintetizzata dalle dichiarazioni del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, al termine del Consiglio di Difesa.

Insieme con i paesi membri dell’UE e gli alleati della NATO, è indispensabile rispondere con unità, tempestività e determinazione. L’imposizione alla Federazione Russa di misure severe vede l’Italia agire convintamente nel quadro del coordinamento in seno all’Unione europea.”

I leader del G7, in maniera compatta, condannano l’aggressione della Russia contro l’integrità territoriale, la sovranità e l’indipendenza dell’Ucraina, effettuata in parte dal territorio bielorusso:

una grave violazione del diritto internazionale e della Carta delle Nazioni Unite, oltre che di tutti gli impegni con cui la Russia è entrata nell’Atto finale di Helsinki, nella Carta di Parigi e nel memorandum di Budapest.

 

Fonte: pmi.it

Leggi il comunicato di CONFAPI qui.